Page 1332 - Giorgio Vasari
P. 1332

il valore della poesia, perché non men compassione muovono in chi
               riguarda gli atti formati nella cera dallo scultore, che faccino in chi
               ascolta gli accenti e le parole notate in carta, vive, da quel poeta. E
               per mostrare il luogo dove il caso seguì, fece da piè il fiume d'Arno
               che  tiene  tutta  la  larghezza  della  storia,  perché  poco  discosto  dal

               fiume è in Pisa la sopra detta torre; sopra la quale figurò ancora una
               vecchia ignuda, secca e paurosa, intesa per la Fame quasi nel modo
               che  la  descrive  Ovidio.  Finita  la  cera,  gettò  la  storia  di  bronzo,  la

               quale  sommamente  piacque,  et  in  corte  e  da  tutti  fu  tenuta  cosa
               singulare.

               Era il duca Cosimo allora intento a beneficare et abbellire la città di
               Pisa e già di nuovo aveva fatto fare la piazza del mercato con gran
               numero di botteghe intorno e nel mezzo messe una colonna alta dieci
               braccia sopra la quale per disegno di Luca doveva stare una statua in

               persona  della  Dovizia.  Addunque  il  Martini,  parlato  col  Duca  e
               messogli innanzi il Vinci, ottenne che 'l Duca volentieri gli concesse la
               statua,  desiderando  sempre  sua  eccellenza  d'aiutare  i  virtuosi  e  di
               tirare innanzi i buoni ingegni. Condusse il Vinci di trevertino la statua

               tre  braccia  e  mezzo  alta,  la  quale  molto  fu  da  ciascheduno  lodata
               perché, avendole posto un fanciulletto a' piedi, che l'aiuta tenere il
               corno  dell'abbondanza,  mostra  in  quel  sasso  ancora  che  ruvido  e
               malagevole,  nondimeno  morbidezza  e  molta  facilità.  Mandò  di  poi

               Luca a Carrara a far cavare un marmo cinque braccia alto e largo tre,
               nel  quale  il  Vinci  avendo  già  veduto  alcuni  schizzi  di  Michelagnolo
               d'un  Sansone  che  ammazzava  un  Filisteo  con  la  mascella  d'asino,
               disegnò da questo suggetto fare a sua fantasia due statue di cinque

               braccia. Onde mentre che 'l marmo veniva, messosi a fare più modelli
               variati  l'uno  dall'altro,  si  fermò  a  uno  e  di  poi  venuto  il  sasso,  a
               lavorarlo incominciò e lo tirò innanzi assai, immitando Michelagnolo
               nel cavare a poco a poco de' sassi il concetto suo e 'l disegno senza

               guastargli o farvi altro errore. Condusse in questa opera gli strafori
               sotto  squadra  e  sopra  squadra,  ancora  che  laboriosi,  con  molta
               facilità, e la maniera di tutta l'opera era dolcissima. Ma perché l'opera
               era  faticosissima,  s'andava  intrattenendo  con  altri  studi  e  lavori  di

               manco importanza, onde nel medesimo tempo fece un quadro piccolo
   1327   1328   1329   1330   1331   1332   1333   1334   1335   1336   1337