Page 2208 - Shakespeare - Vol. 4
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Infine così parla dolcemente
               al quadro che dipinge la sua pena:
               «Ragazza mia, perché sulle tue guance
               stanno piovendo lacrime? Se piangi

               per il dolore di cui soffro io,
               poco mi giova, ancella: se giovasse
               il pianto, basterebbe quello mio.



               «Ma dimmi, cara», e qui fa pausa e geme,

               «quand’è che è andato via di qui Tarquinio?»
               «Quando dormivo ancora», fa l’ancella,
               «ed ho vergogna della mia pigrizia.
               La sola scusa che io possa addurre
               è che mi son svegliata proprio all’alba,

               mi sono alzata ed era già partito.



               «Ma se non è impudenza in un’ancella,
               cos’è, signora, che vi opprime tanto?»
               «Oh, lascia», fa Lucrezia, «il raccontarlo
               non mi sarebbe certo di sollievo;

               è più di quanto possa dir la lingua,
               ed è tortura degna dell’inferno
               quand’essa non sia pari alla sua pena.



               «Va’ a prendermi l’inchiostro, e carta e penna;

               no, non occorre, c’è già tutto qua.
               − Cos’altro? − di’ a un uomo del mio sposo
               di prepararsi subito a portare
               una lettera all’amato mio signore:

               che faccia presto; è urgente, e in pochi istanti
               la lettera sarà già stata scritta».



               Parte l’ancella, e a scrivere s’appresta.
               Dapprima indugia con la penna in aria;
               pena e pensiero lottano tra loro,

               l’una cancella ciò che l’altro scrive:
               troppo elegante questo, rude quello.
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