Page 2202 - Shakespeare - Vol. 4
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«Non t’avvelenerò col mio contagio, 104
e non l’ammanterò di false scuse;
nessun colore sul peccato nero
l’abuso celerà di questa notte.
La lingua dirà tutto, l’occhio, chiusa
che d’acqua alpestre nutre la vallata,
depurerà il mio racconto impuro».
Così chiude il suo canto melodioso
Filomela, 105 piangendo il suo dolore,
mentre solenne scende nell’inferno
la notte; ed ecco già arrossisce l’alba
prestando luce all’occhio che la cerca;
Lucrezia si vergogna di vedersi
e ancor vorrebbe il chiostro della notte.
Ma il giorno va spiando da ogni crepa,
e sembra che l’additi ove singhiozza.
«Occhio degli occhi», gli fa lei piangendo,
«perché mi osservi dietro la finestra?
Sfiori il tuo raggio l’occhio di chi dorme;
non mi marchiar la fronte con la luce,
con gli atti della notte tu non c’entri».
Così con ciò che vede ella cavilla.
La vera pena è un bimbo capriccioso,
che se s’arrabbia, nulla gli va bene.
Calmo è il dolore antico, non il nuovo;
il tempo doma il primo, l’altro, folle,
non sa nuotare eppure vuol tuffarsi,
e così annega per il troppo affanno.
Immersa dentro il mare della pena,
con tutto ciò che vede va altercando
e paragona ogni dolore al suo,
che d’ogni cosa nuova forza trae:
sparita l’una già s’appressa un’altra.