Page 2145 - Shakespeare - Vol. 4
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gli avvinghia dolcemente i bracci al collo,
sembrano un solo corpo e un solo viso.
Egli ansa e si divincola e ritrae
l’umida bocca di coral celeste
che tanto gusta lei, di lui assetata,
che mentre se ne sazia piange arsura.
Stremati, lui dal troppo e lei dal poco,
con incollate labbra van giù a terra.
Preda che cede ora la brama afferra,
lei lo divora eppure non ne è sazia;
la bocca di lei vince, l’altra paga
quanto riscatto esige il trionfatore,
che per rapacità tanto alza il prezzo
che gli prosciuga i labbri, erario ricco.
Gustata la dolcezza del bottino,
con furia cieca prende a foraggiarsi;
le fuma il volto, il sangue le ribolle,
la foia ormai la rende temeraria,
semina oblio, respinge la ragione,
dimentica il pudore e onor va a picco.
Affranto dal calore degli abbracci,
come un uccello preso e smaneggiato,
o cervo esausto dopo lunga caccia,
o bimbo irato che la culla acquieta,
egli obbedisce e già più non resiste,
lei prende ciò che può, ma di più vuole.
Che fredda cera al caldo poi non scioglie,
e s’offre alla più lieve delle impronte?
L’audace ottiene più di quanto speri,
specie in amor, ch’è dove più si cede:
non è un codardo pallido l’affetto,
ma incalza più quanto il prescelto nega.