Page 2136 - Shakespeare - Vol. 4
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Lassa regina, da tua legge oppressa, 25
amar la guancia che ti spregia e ride!
Ed ora cosa fare, cosa dire?
Parole non ne ha più, il dolore aumenta,
le manca il tempo, vuol fuggir la preda,
e esige ch’ella snodi le sue braccia.
«Pietà», grida, «un favore, del rimorso!»
Lui scappa via ed al destrier s’affretta.
Ma ecco, da un boschetto nei paraggi
una giumenta forte e ardita adocchia
d’Adone il destriero scalpitante,
e si fa avanti, e sbuffa, alta nitrendo:
col forte collo lui, a un ramo stretto,
rompe le redini e su lei si butta.
Salta imperioso, s’impenna, nitrisce,
e spezza in due la sua cinghia intrecciata;
strazia con l’unghia la portante terra,
cui il grembo cavo echeggia come tuono;
coi denti schianta il suo morso di ferro,
domina ciò che dianzi il dominava.
Drizza le orecchie, e la pendente treccia
sull’inarcato collo ora sta ritta,
bevon le froge sue l’aria, e vapori
come fornace manda poi di fuori:
l’occhio, che splende fiero come fuoco,
la foia e l’alto suo desio dimostra.
Quasi contasse i passi a tratti trotta:
par re gentile, dal modesto orgoglio;
ma poi s’impenna, fa corvette, salta,
quasi dicesse «Ecco la mia forza;
e se lo faccio è per attrarre l’occhio
della giumenta bella che m’è accanto». 26