Page 2135 - Shakespeare - Vol. 4
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gridano il torto suo guance e occhi in fiamme;
               ma, giudice d’amor, non sa arringare:              21
               ed ora piange, ed ora vuol parlare,
               e ora il singhiozzo frustra l’intenzione.



               Scuote ora il capo, e dopo a lui la mano,

               ed ora fissa lui, ed ora il suolo;
               col braccio ora lo cinge, a mo’ di laccio:
               stringerlo in braccio vuole lei, lui no;

               e s’egli lotta per divincolarsi,
               dita con dita, gigli, ella inchiavarda.



               «Sciocco», gli dice, «giacché t’ho rinchiuso
               qui dentro a questo eburneo recinto,
               io sarò il parco e tu sarai il mio cervo;          22

               bruca ove vuoi, in valle od in collina,
               mordimi i labbri, e fosse il colle secco,
               scendi ove stanno le soavi fonti.



               «Qui dentro v’è sollievo sufficiente,
               dolci altipiani e grati fondi erbosi,

               tondi, erti colli, macchie oscure e fitte,
               per ripararti da tempesta e pioggia:
               sii dunque il cervo, giacché sono il parco,
               can non ti stanerà, latrasser mille».           23



               Sorride allora Adone, come a sdegno,

               e due fossette appaion sulle guance;
               Amor le ha fatte, per poter, se ucciso,
               esser sepolto in sì semplice tomba,
               sapendo ben, dovesse ivi giacere,

               perché lì vive amor, né può morirvi.            24



               Queste conchette, fascinosi pozzi,
               di Venere trangugiano il desio:
               pazza da prima, quale adesso ha senno?
               Morta di già, perché un secondo colpo?
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