Page 2134 - Shakespeare - Vol. 4
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«Ahi», fa Venere, «sì giovane e scortese,
               che magre scuse dai per filar via!
               T’aliterò fiato celeste, e il vento
               rinfrescherà il calor del sole occiduo:

               ombra per te farò col crine mio,
               lo spegnerò col pianto, ardesse anch’esso.



               «È appena tiepido, il celeste sole,
               guarda, tra il sole e te ci sono io:

               fa poco male il suo calore, è l’occhio
               tuo che dardeggia il fuoco che mi brucia;
               sarei già morta, non foss’io immortale,
               tra il suo celeste e il tuo terreno sole.



               «Sei ostinato, un sasso, un duro acciaio?

               No, peggio, il sasso l’acqua pur l’allenta:
               figlio di donna, puoi tu non sentire
               amor cos’è, cos’è il soffrir se manca?           20
               Fosse tua madre stata tanto dura,
               moriva intatta e tu manco nascevi.




               «Che sono, che tu debba sì sdegnarmi?
               Che gran periglio è mai la mia preghiera?
               Ti nuoce al labbro, di’, un povero bacio?
               Parla, dolcezza, e dolce parla, o taci:

               dammi soltanto un bacio, e te lo rendo,
               con l’interesse, ne volessi due.



               «Ah, quadro morto, inerte e fredda pietra,
               idolo pinto, imago senza vita,
               statua che sazia l’occhio solo, oggetto

               simile all’uomo, non nato di donna!
               Uomo non sei, se pure hai volto umano,
               ché l’uomo bacia, e di sua volontà».



               La lingua orante ormai furia le impaccia,
               passione, in piena, provoca una pausa;
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