Page 2117 - Shakespeare - Vol. 4
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coscienza  affatto:  crolla  svenuta,  ed  è  così  totalmente  insensibile  che she
          feleth nothinge, neither foule ne feyre, «non prova niente, né di bello né di
          brutto».
          Quanto alla Lucrezia shakespeariana, i seguaci moderni del De Civitate Dei

          non mancano. William Empson, ad esempio, prima definisce spiritosamente
          Agostino «villano come sempre» per il suo si adultera, cur laudata? si pudica,
          cur occisa?; ma poi nota che tutta la «retorica romantica» che Shakespeare
          mette  in  bocca  a  Lucrezia  «ha  l’unica  funzione  di  evadere  questo  vecchio

          dilemma», e che fino alla morte lei stessa parla di sé come colpevole. Infine
          ripete pedissequamente la villania di Agostino, e sulla pezza d’appoggio che
          «è  assodato  che  il  giovane  Shakespeare  considera  i  giovanotti  come
          travolgentemente desiderabili per le donne, specie se si tratta di giovani lords

          arditi», passa a sancire che Lucrezia «prova involontariamente piacere nello
          stupro», e che «è per questo che si sente in colpa». Agostino aveva avuto il
          buon gusto di aggiungere che, se abbia o meno provato piacere, «ella sola lo
          poté  sapere».  Oppure  dobbiamo  intendere  che  la  villania  di  Empson  ha  la

          segreta  intenzione  di  elevare  Lucrezia  allo status di  vera  eroina  tragica
          shakespeariana, agente del suo stesso destino?
          Sta  di  fatto  che  nel  poemetto  non  ci  si  decide  né  per  una  visione
          coerentemente  classica,  centrata  sull’onore  pubblico  (la  «cultura  della

          vergogna» di cui parla I. Donaldson), né per una visione “cristiana” centrata
          sulla coscienza interiore (la «cultura della colpa»). Lucrezia sembra sospesa
          tra  un  punto  di  vista  cripto-agostiniano,  e  il  punto  di  vista  romanamente
          fattuale espresso da Bruto, per il quale Lucrezia ha semmai commesso uno

          «sbaglio»: quello di ammazzare se stessa invece che Tarquinio. Entrambe le
          visioni affiorano a più riprese, e il mixtum, questa volta, risulta torbido e ne
          patisce  la  struttura.  Tuttavia,  colla  sua  torbida  morbosità, Lucrezia è  una
          precoce  manifestazione  di  quell’atmosfera  di  disgusto  e  repulsione  che  con

          Amleto,  Lear e Timone tanta  parte  avrà  nello  Shakespeare  maturo.  Si  può
          concordare  con  Prince  che  il  poemetto  rivela  la  «continuità  profonda  della
          sensibilità shakespeariana» ben più di molte altre più piacevoli opere della
          sua giovinezza.





          «La fenice e la tortora»

          Senza titolo, ma sottoscritta «William Shake-speare», la poesia comparve nel

          1601  in  un  libro  di  Robert  Chester, Loves  Martyr:  Or,  Rosalins  Complaint ,
          «adombrante  allegoricamente  la  fedeltà  d’Amore,  nel  Fato  costante  della
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