Page 2115 - Shakespeare - Vol. 4
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la  dice  lunga  sulla  natura  delle  “principesse”  degli  ultimi  drammi.  Finché
          Tarquinio è in scena, è lui, il «lupo», il centro del nostro interesse.
          Quanto  a  Lucrezia,  l’«agnello»,  ha  un  ruolo  troppo  passivo,  troppo  poco
          complesso nella vicenda, e «quando mai», possiamo chiederci con Maxwell,

          «nella tragedia shakespeariana l’interesse principale risiede nel fato di una
          vittima che non ne sia anche il principale agente?». Così il suo trattamento
          sembra patire dei difetti che Coleridge imputava ai colleghi di Shakespeare,
          Beaumont e Fletcher, i quali «scrivono sempre come se la virtù o la bontà

          fossero una sorta di talismano, o uno strano possedimento che si può perdere
          senza la benché minima colpa da parte del possessore. Le loro caste eroine
          stimano  la  propria  castità  come  un  qualcosa  di  materiale,  e  non  come  un
          agire o un modo d’essere». Visto che anche Lucrezia stima la propria castità

          un  «tesoro»  (v.  1057)  e  una  «gemma»  (v.  1191)  −  e  di  conseguenza  suo
          marito  fa  la  figura  del  «mercante  depredato»  (v.  1660)  −  sembrerebbero
          sussistere gli estremi per un’imputazione di correità.
          Non che la sua vicenda mancasse di un complesso interesse morale, ché anzi,

          da  quando  Agostino  aveva  onorato  Lucrezia  di  una  fin  troppo  penetrante
          analisi  nel De  Civitate  Dei,  la  sua  era  una cause  célèbre  della  casistica
          cristiana, e tale continuava ad essere nel XVI secolo. Agostino se ne occupa
          difendendo il caso delle donne cristiane che, stuprate contro il loro consenso,

          non usano togliersi la vita (come romanamente fa invece Lucrezia), e vengon
          quindi considerate dai pagani come impure e disonorate. Ma la concezione
          agostiniana  della  castità  e  dell’onore  risulta  essere  proprio  quella  di  cui
          Coleridge imputava la mancanza a Beaumont e Fletcher. La purezza, ribatte

          infatti Agostino, non è del corpo, ma dell’anima: se dunque non c’è consenso,
          la  donna  stuprata  rimane  purtuttavia  casta,  giacché  «nessuno,  per  quanto
          magnanimo e pudico, è responsabile di ciò che altri fanno del suo corpo... Se
          la castità si perdesse in tal modo, non sarebbe più una virtù dell’anima, ma

          apparterrebbe  ai  beni  del  corpo»  (I,  xviii).  Quanto  alla  casta  e  suicida
          campionessa della parte avversa, «quella Lucrezia così decantata», Agostino
          obbietta che ammazzando se stessa ha ammazzato un’innocente; e dunque,
          «perché  lodare  tanto  l’assassina  di  un’innocente  e  casta?».  E  se  invece,

          insinua,  casta  alla  fin  fine  non  fosse,  ma  «avesse  acconsentito  con  la  sua
          passione  illecita  al  giovane  violento»  e,  tormentata  dalla  colpa,  si  fosse
          ammazzata  per  espiare?  Come  sia  andata  noi  non  lo  possiamo  sapere,
          ammette  Agostino,  ma  delle  due  l’una  −  o  ha  acconsentito,  e  allora  era

          un’adultera,  oppure  non  ha  acconsentito,  e  allora  ha  ammazzato
          un’innocente; ma, stando così le cose, si adultera, cur laudata? si pudica, cur
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