Page 2118 - Shakespeare - Vol. 4
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Fenice e della Tortora». Si tratta di una miscellanea che, oltre che le poesie
          di Chester, e svariato altro materiale, contiene anche dei contributi poetici di
          John Marston, George Chapman, Ben Jonson, un «Ignoto» che forse è John
          Donne,  e  Shakespeare.  Il  libro  è  dedicato  a  Sir  John  Salisbury,  un  lontano

          parente  della  regina  Elisabetta,  che  nel  1586  aveva  sposato  la  figlia
          illegittima, ma riconosciuta, del Conte di Derby, Re dell’isola di Man. Chester
          era  un  dipendente  di  Salisbury,  forse  il  suo  cappellano,  e  la  data  di
          pubblicazione  coincide  con  quella  in  cui  Salisbury  venne  fatto  cavaliere  da

          Elisabetta: l’opera sembra dunque compilata per celebrare l’occasione, ma fa
          certo anche riferimento al matrimonio. Come il libro di Chester («deplorevole
          e oscuro» per Maxwell, «grottescamente inesperto e tedioso» per Prince) sia
          giunto a comprendere i contributi di poeti come Marston, Jonson, Chapman e

          Shakespeare  è  un  mistero  non  inferiore  a  quello  dell’astrusa  allegoria  che
          contiene. Qui non si intende risolvere né l’uno né l’altro, e ci si guarderà bene
          dal  mettere  anche  soltanto  piede  nell’infida  palude  dei  suoi  possibili
          riferimenti  topici  e  storici.  Quanto  al  contributo  di  Shakespeare,  è  per

          generale consenso un misterioso unicum all’interno della sua produzione. Per
          la  Bradbrook  è  il  solo  suo  componimento  che  appartenga  manifestamente
          alla  tradizione  «cortese»  e  «platonica»;  per  Lewis  è  la  sua  poesia  «più
          segreta»; per M. Evans la «più ambigua»; per A. Alvarez, infine, si tratta di

          una  poesia  piena  di  «complicazioni  intenzionali»  che  la  rendono
          «inespugnabile». Il genere è quello cortese e medievale della “messa degli
          uccelli”, le cui origini risalgono all’eroicomico rito funebre con cui alcuni «pii
          uccelli» accompagnano alla tomba il pappagallo di Corinna in Ovidio, Amores,

          II,  6.  T.W.  Baldwin,  in  effetti,  ha  convincentemente  dimostrato  come
          Shakespeare  derivi  quasi  tutto  il  materiale  della  sua  “storia”  da  Ovidio,
          integrandolo  con  apporti  e  dettagli  da  Plinio  e  dal De  Ave  Phoenice  di
          Lattanzio,  che  a  loro  volta  discendono  dalle  note  del  commentatore

          cinquecentesco  degli Amatoria  di  Ovidio,  Dominicus.  Com’è  noto,  tuttavia,
          una cosa sono le fonti, un’altra l’uso che Shakespeare ne fa. Per quanto alcuni
          commentatori  si  siano  recentemente  chiesti  quale  sia  il  «grado  di  serietà»
          con  cui  Shakespeare  tratta  la  convenzione,  spingendosi  fino  a  subodorare,

          con  Evans,  certe  qualità  «teatrali»  ed  «eroicomiche»,  la  maggior  parte
          sembra  concordare  con  R.  Ellrodt  che  il  «tono  oracolare»  della  poesia,  per
          quanto enfatico, «non suggerisce mai pseudo-solennità, come avviene nella
          giocosa elegia di Ovidio per il pappagallo della sua amante».

          Così Lewis (molto più a suo agio coi «pii uccelli» di questa poesia che non con
          Venere-avvoltoio),  nella  «mutua  fiamma»  in  cui  la  Fenice  e  la  Tortora,
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