Page 2119 - Shakespeare - Vol. 4
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estinguendosi,  diventano  «una  sola  essenza»,  vede  l’esposizione
          emblematica di una «filosofia d’amore», il compimento di una «dottrina» già
          abbozzata  dal  poeta  nei  Sonetti.  Mentre  allora  l’«annullamento»  era  stato
          unilaterale,  ed  egli  «si  era  perso  nell’altro  senza  che  l’altro  si  perdesse  in

          Shakespeare,  ora  Shakespeare  celebra  la  scambievole  morte,  e  vita,  di  un
          amore  pienamente  mutuo».  Coi  suoi  caratteri  «ritualistici»,  col  suo  «metro
          rigido  e  deliberatamente,  ipnoticamente  monotono»,  l’opera  è  interamente
          seria:  «l’oracolare,  che  di  tutti  gli  stili  è  il  più  spregevole  quando  non

          funziona,  è  qui  coronato  da  un  completo  successo;  abbiamo  l’illusione  di
          essere stati in un altro mondo e di aver udito le voci degli dei». Lewis non è il
          solo ad assumere un tono tendenzialmente enfatico di fronte ai 67 versi di
          questa poesia, ché anzi non fa che raccogliere con sostanziale moderatezza

          un’intera tradizione interpretativa. La scoperta della portentosa significanza di
          questo  breve  componimento  risale  infatti  agli  anni  dell’entusiasmo  per  la
          “poesia  pura”  francese  (che  sono  anche  quelli  del revival  della  poesia
          metafisica inglese). La sua formulazione classica e flamboyante a un tempo è

          reperibile  in  Middleton  Murry  nel  1924:  «per  ragioni  che  evadono
          l’espressione  nel  discorso  ordinario,  la Fenice  è  la  poesia  più  perfetta  di
          qualsiasi  lingua.  È  poesia pura  nel  significato  più  alto  e  astratto
          dell’espressione:  vale  a  dire  che  essa  ci  dà  la  più  alta  esperienza  che  la

          poesia  ci  possa  dare,  e  ce  la  dà  senza  interruzione  (...)  Accanto  alla  sua
          sovraterrena purezza e indefettibile calma, anche la più meravigliosa poesia
          dei drammi può alle volte apparirci come “macchiata di mortalità”».
          La purezza, come spesso è avvenuto, spiana il terreno al decollo verso il cielo

          vuoto  dell’autoreferenzialità.  Per  W.J.  Ong,  in  questa  poesia  studiatamente
          ambigua «il lettore è incoraggiato a far crescere la metafora e ad estendere
          la  sua  gamma  di  applicabilità  senza  alcun  limite  particolare.  E  mentre  la
          facciamo crescere, all’improvviso ci rendiamo conto che la fenice e la tortora

          possono spiccare il volo come simboli in una dimensione ulteriore e diventare
          metafora  della  metafora  stessa».  Secondo  J.  Roe  «la  pratica  critica  di
          considerare una poesia come una meditazione sul suo stesso mezzo stilistico
          (un  tempo  applicata  a tutta la poesia) è da tempo screditata; e tuttavia in

          questo caso si tratta di una poesia che sembra trarre beneficio da una simile
          analisi».
          Sulla sostanziale appartenenza del componimento alla poesia “pura” continua
          a insistere anche Prince, ma mescolandovi un certa dose di distanziamento

          ironico. La compagnia più adatta per La fenice e la tortora sarebbero allora
          l’Ulalume di  Poe  (coi  suoi  «suggerimenti  di  autocaricatura»),  la Prose  pour
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