Page 2112 - Shakespeare - Vol. 4
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critici. Basti citare F.T. Prince, per il quale «dopo lo stupro, Lucrezia perde la
nostra simpatia esattamente nella misura in cui scioglie la lingua».
Certo, le sue innumerevoli digressioni rendono difficile il meccanismo
dell’identificazione patetica, ma non è poi del tutto sicuro che il poemetto si
riproponga innanzitutto, o unicamente, di suscitare «simpatia», e non vi
riesca perché troppo sentenzioso e moraleggiante. Pur premettendo che
«nessuno si è mai fatto avanti a dichiarare che Lucrezia è una consapevole
parodia», Lever nota che «le moralizzazioni sentenziose e troppo esplicite
hanno un effetto artificiale che la sfiora». Tuttavia, in svariate occasioni,
l’impressione è che la parodia non venga soltanto inconsapevolmente
«sfiorata». Bullough dice che in Lucrezia il giovane Shakespeare mostra il
pericolo di diventare «un mero eufuista», ma che in seguito se ne salverà
grazie al suo «sense of humour, che nei suoi futuri drammi lo farà reagire alla
retorica pur usandola e divertendocisi». Ma già l’anno prima, in Venere e
Adone, l’ancor più giovane Shakespeare non sembrava del tutto sprovvisto di
sense of humour, e reagiva alla retorica cortese della poesia d’amore
precisamente «usandola e divertendocisi»: vale a dire gonfiandola e
parodizzandola. Come nota Bush, in quel primo poemetto «Shakespeare non
soltanto ride dell’eufuismo, ma lo pratica con un certo gusto». Non sarà che in
Lucrezia fa la stessa cosa con la retorica “tragica” della sentenziosità e del
moraleggiamento? Oppure dobbiamo ritenere che è lecito trarre effetti
comico-parodici pompando la retorica cortese, ma non lo è fare altrettanto
con la retorica tragica? Dopo tutto, già Johnson, nella sopraccitata sentenza,
aveva notato che Shakespeare «nella tragedia cerca sempre qualche
occasione per essere comico». Per motivi di decoro augusteo e di purezza di
genere la cosa non gli piace, preferirebbe che la tragedia fosse tutta tragica e
non mixta, che facesse solo piangere e non anche ridere, ma il comico viene
riconosciuto per tale, e non come un fallito tentativo di pathos che aspira ma
non riesce a suscitare sim-patia.
Sul finire del secolo XVI, nella generazione di Thomas Nashe, Marlowe e
Shakespeare, la parodia dei generi alti la si «respirava nell’aria», ed è
chiaramente connessa, nota Muriel Bradbrook, alla «transizione da un modo
di scrivere prevalentemente cortese a un modo prevalentemente popolare».
Assieme al petrarchismo cortigiano, eufuistico ed etereo, la gravitas della
nobile moralizzazione sentenziosa è tra i generi più ovviamente parodizzati −
vedi la gran fortuna contemporanea della grottesca figura del pedante. E così
come il modo più naturale di «reagire» all’eufuismo è di esagerarlo
ulteriormente (il che non soltanto non impedisce, ma prescrive di divertirsi ad