Page 2113 - Shakespeare - Vol. 4
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approfittare di tutta la sua retorica), così anche può avvenire per l’altro
genere: quello sentenzioso e didattico di Lucrezia, che, come la definisce
Lever, è una «morality tragica», e cioè «una narrazione esemplare, basata
sulla storia, che inculca un principio morale, come il Mirror for Magistrates».
Col che non si vuol saltar fuori con la scoperta che Lucrezia è un’opera
comica, ma solo notare che se, come sembra a Muir, il poemetto «potrebbe
servire da illustrazione per un libro di testo di retorica», ciò non avviene solo
e soltanto nel fallito tentativo di innalzarsi fino al pathos tragico. Prendiamo,
per esempio, il momento culminante della storia, lo stupro. L’estrema difesa
di Lucrezia di fronte all’infiammato Tarquinio, che le incombe sopra con una
torcia in mano, consiste in una tirata di ottantacinque versi in cui la casta
matrona si appella al rango, alla cavalleria, alle umane e sante leggi, alla
buona fede, al cielo ed alla terra ed al poter d’entrambi, includendovi un
intero piccolo trattato di esemplificazioni dell’aureo principio del buon
governo che «il re è lo specchio, è la scuola, è il libro / in cui il vassallo
guarda, impara e legge». Quando Tarquinio si rende conto che Lucrezia non
ha ancora finito, ma sta anzi dando inizio a un nuovo capitolo, concernente la
necessità che i pensieri del principe siano servi del suo rango, la interrompe e
sbotta in un esasperato:
Basta [...] non voglio più sentirti.
Cedi al mio amore, oppure sarà l’odio,
e non l’amore timido, a sforzarti.
[vv. 667-669]
Col che spegne la torcia col piede e la stupra. Lungi dal provare simpatia per
Lucrezia, il lettore (in quanto lettore, e non moralista) non può che
condividere l’esasperazione di Tarquinio per l’inarrestabile sentenziosità
didattica di Lucrezia, ed accoglie con sollievo non dico lo stupro, ma sì
l’interruzione del trattato-predica. Il passaggio dalla soffocante eloquenza del
«belante agnello» alla franchezza brutalmente colloquiale del «lupo» risulta
oggettivamente liberatorio, e l’effetto è che nel lettore si introduce
subliminalmente il sospetto che Tarquinio stupri Lucrezia pur di farla star zitta
in qualche modo, e più per odio della sua retorica che per lussuria. Dovrebbe
trattarsi del climax patetico dell’intero poemetto, ma la strategia che lo detta
non sembra precisamente o puramente tragica, né volta a suscitare la
massima simpatia per la vittima. La scena, per altro, ha un esatto
corrispondente (in tutto e per tutto comico) in Venere e Adone, dove a un
certo momento la dea infligge all’impaziente cacciatore un interminabile e