Page 2114 - Shakespeare - Vol. 4
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lambiccato “moraleggiamento” (come lei stessa lo chiama al v. 711: «se
moraleggio, che non è il mio stile, / e questo a quello e quello a questo
accosto»). Adone cerca di interromperla, ma poiché Venere rincara
imperterrita la dose, alla fine, esasperato, sbotta:
Eh no, [...] ricominci ancora
coi tuoi discorsi inutili e ritriti?
[...] più tu insisti
col tuo trattato, e meno io ti amo!
[vv. 769-74]
e la nostra simpatia, per una volta, va tutta ad Adone, martire della retorica
di Venere, com’è qui Tarquinio di quella di Lucrezia. Sembrerebbe dunque che
l’ipotesi della presenza, in questa «più grave fatica» tragica, di un ben
consapevole elemento anti-tragico di parodia possa esser presa seriamente in
esame.
Ciò detto, Lucrezia resta naturalmente una “tragedia”, anche se il vero
interesse tragico risiede forse, piuttosto, in Tarquinio, che però scompare
presto di scena. Tuttavia, lacerato tra coscienza e volontà, e in lotta con se
stesso, egli è davvero, come appare a Muir, «il primo eroe tragico»
shakespeariano, e non soltanto un monolitico villain come Riccardo III.
Sedotto non dalla bellezza, ma dalla parola «castità», che gli accende un
«fuoco buio» nelle vene, Tarquinio assomiglia al futuro Angelo di Misura per
misura, il puritano che viene repentinamente sopraffatto dalla lussuria
davanti a una suora, e la ricatta per possederla. Molti sono i tratti in comune
con Macbeth, che non per nulla si avvicinerà a Duncan «coi passi stupratori di
Tarquinio». Come ha notato Hamilton, il critico forse più sensibile alla sua
figura, Tarquinio sembra divorato dal «desiderio di distruggere se stesso
attraverso il peccato. L’occasione conta poco...». È come se in sé avesse
sentito spalancarsi un ignoto precipizio senza fondo, e fosse preso dalla
vertigine di precipitarcisi al più presto, sedotto da quell’infernale senso di
infinito che si è scoperto dentro. Ciò che lo travolge non è la passione, ma
l’ebbrezza di una volontà che si esalta nella certezza di violare ragione e
coscienza, in una perdizione voluta. Che questa perdizione sia il suo vero
obbiettivo è mirabilmente segnalato dall’ambiguo lamento di una principessa
violata, che non è, come potrebbe sembrare a prima vista, Lucrezia, bensì
l’anima di Tarquinio stesso. Ma l’una e l’altra sono un tutt’uno, perché il
«vincitor vinto che vincendo ha perso» (v. 730), stuprando Lucrezia, mirava
prima di tutto a stuprare la sua propria «principessa» interiore − il che forse