Page 2121 - Shakespeare - Vol. 4
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riconoscibilmente  teologici,  è  per  analogia,  e  perché anche  nella  tradizione
          teologica  la  ragione  ha  la  funzione  di  trascendersi.  Avvalendosi  di  quei
          paradossi,  Shakespeare  cerca  di  trascendere  l’esperienza  comune,  ma  «in
          nessun  luogo»,  nota  Ellrodt,  «suggerisce  un’allegoria  di  misteri  religiosi  e

          neppure dell’amore divino». Quanto al ritmo iterativo e incantatorio, non fa
          che  seguire  dappresso  l’accumularsi  di  aporie  che  dimostrano  logicamente
          l’insufficienza della logica, e l’oracolarità della poesia risulta un tutt’uno col
          suo  essere  duramente  “disciplinata  dalle  idee”.  Nella  sua  distruzione  delle

          categorie  razionali  vi  è  dunque  molto  metodo,  e  una  sua  eccessiva
          purificazione non può che indebolirla.
          La fenice e la tortora resta in ogni caso unica nel corpus shakespeariano, e
          tanto  diversa  da  ogni  altra  cosa  esso  contenga  che  «dalle  prove  interne»,

          nota Lewis, «non potremmo arguire che la poesia è di Shakespeare». Proprio
          per questo è tanto insostituibilmente preziosa.
                                                                                           GILBERTO SACERDOTI





          Nota al testo e alla traduzione

          L’edizione  Arden  dei  poemetti  (qui  seguita)  contiene  anche The  Passionate
          Pelgrim,  una  miscellanea  pubblicata  probabilmente  nel  1599  che  viene  qui

          omessa perché i cinque testi sicuramente shakespeariani che contiene sono
          rispettivamente due versioni leggermente diverse dei Sonetti 138 e 144, e tre
          passi di Love’s Labour’s Lost.
          I n Venere  e  Adone  e  in Lucrezia  (e  nella  quasi  totalità  de La  fenice  e  la

          tortora) ho rispettato la struttura dell’originale, pur senza sognarmi di rimare.
          Vale a dire che i versi sono versi e le strofe sono strofe (cioè hanno lo stesso
          numero di versi del testo inglese), il che costituisce una novità rispetto alle
          due traduzioni precedenti che ho avuto davanti agli occhi.

          In una infatti (quella di A. Mabellini riportata, e rivista, da Mario Praz nella
          sua edizione delle opere complete di Shakespeare) si fa uso di versi, ma il
          traduttore  allunga  a  piacimento  il  loro  numero  e  non  rispetta  la  forma
          strofica, il che comporta alcuni effetti negativi. Il tono muscolare della lingua,

          non più costretta a rientrare in uno spazio limitato, si rilassa. C’è una quantità
          di  materiale  aggiunto  col  puro  scopo  di  riempire  uno  stampo  troppo  largo,
          oppure  di  “spiegare”  ciò  che  il  testo  non  spiega.  La  mancata  scansione  in
          strofe, e dunque in unità di senso, rende meno intelligibile il testo. Infine e

          soprattutto, il tono è uniformemente “poetico” e “alto”, il che, specie nel caso
          di Venere e Adone, risulta fatale perché viene completamente cancellato il
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