Page 2111 - Shakespeare - Vol. 4
P. 2111
senso non-drammatico che il termine aveva nel medioevo), ed è scritto in
rhyme royal, metro già usato da Chaucer e prescritto da Giacomo VI di Scozia
come il più adatto per «materie tragiche, lamentazioni e testamenti». Il
primo, infine, non inculca alcuna morale, il secondo sembra dedicarvisi
alacremente.
Nella Preface to Shakespeare del 1765, il dottor Johnson emise un celebre
verdetto: la «disposizione» di Shakespeare «lo portava alla commedia. Nella
tragedia spesso scrive con grande apparenza di fatica e studio ciò che alla
fine è scritto con poca felicità; ma nelle sue scene comiche sembra produrre
senza fatica ciò che nessuna fatica potrebbe migliorare. Nella tragedia cerca
sempre qualche occasione per essere comico, ma nella commedia sembra
riposare, o godere, come in un genere di pensiero congeniale alla sua natura.
La sua tragedia sembra essere abilità, la sua commedia istinto». Che la
sentenza renda giustizia alle grandi tragedie è discutibile, ma certo la
differenza tra la commedia di Venere e la tragedia di Lucrezia vi risulta ben
illustrata. Confrontata col «primo erede», questa «più grave fatica», come la
chiama Shakespeare stesso, appare quasi invariabilmente faticosa anche ai
lettori. D. Bush la trova «meno attraente e più ambiziosa», C.K. Pooler
«meno interessante e più rispettabile», e di fronte al «fascino complesso» di
Venere e Adone, J.W. Lever trova che Lucrezia presenta «un interesse
soprattutto storico».
La storia di come Tarquinio stupri Lucrezia, e di come il suicidio della vittima
spinga il popolo romano a liberarsi dal giogo della tirannia monarchica era
stata succintamente narrata in latino da Tito Livio (I, 57-60) e da Ovidio
(Fasti, n. 721-852), e in Middle English da Chaucer in The Legende of Good
Women (vv. 1680-1885). In Shakespeare (che pure cassa dal poemetto
l’imbarazzante aspetto repubblicano, relegandolo fuori campo
nell’Argomento) questa esigua massa narrativa lievita fino a riempire 1855
versi. Responsabile del dilatamento è la facondia torrenziale di Lucrezia, che
riesce nell’impresa quasi da sola, in virtù di un’ingegnosa serie di
lamentazioni, declamazioni retoriche, analisi psicologiche, proverbi,
esemplificazioni allegorico-morali, invettive contro il Tempo, la Notte e
l’Occasione, e infine con una ekphrasis: la lunga descrizione di un quadro di
argomento troiano in cui il sacco della città viene “applicato” alla violazione
della cittadella di lei medesima. Questa tecnica di amplificazione gnomica è
essenzialmente quella dei retori medievali, e anche se il genere del lamento,
cui il poemetto appartiene, prescriveva copia, la spietata copiosità di Lucrezia
sembra diventare controproducente, e in ogni caso ha esasperato schiere di