Page 2109 - Shakespeare - Vol. 4
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è,  come  sottolineò  per  primo  Douglas  Bush,  l’antitesi:  «l’antitesi  tematica
          centrale tra la dea calda e il giovanetto freddo si riflette poi nei singoli versi,
          che  in  molti  casi  risultano  divisi  più  o  meno  chiaramente  in  due  parti,
          contenenti  idee  opposte».  In  questa  quasi  maniacale  insistenza  Bush  non

          vedeva altro che compiacimento eufuistico e una troppo zelante imitazione
          della fonte: «come se Shakespeare si fosse innamorato di uno dei trucchi di
          Ovidio e l’avesse sfruttato fino all’esaurimento». Ma è anche possibile, invece,
          che la figura dell’antitesi sia l’autentica chiave e segnatura del poemetto, in

          cui un unico conflitto continua a riproporsi a molteplici livelli, nell’architettura
          come nei singoli mattoni, senza che risulti mai risolvibile.
          È quanto vi intravede N. Rabkin, per il quale «non soltanto i protagonisti si
          oppongono  l’uno  all’altra,  ma  il  tema  stesso  del  poemetto  è  l’auto-

          contraddizione implicita in un’attività umana fondamentale». Questa attività è
          l’amore  −  quell’amore  terrestre  e  celeste  che  la  poesia  neoplatonica  e
          petrarchesca  si  compiaceva  di  mettere  in  comunicazione  per  mezzo  di
          comode ed eleganti scale ad uso di cortigiani allenatisi a salire e scendere sul

          Castiglione, ma che qui Adone provvede a ricondurre ai suoi brutali opposti di
          love e lust, chiamando pane il pane e vino il vino: «Non dirlo amore, esso è
          volato in cielo / Poi che ne usurpa il nome foia in terra». Ma quel puro amore
          fuggito in cielo è per il ghiacciato Adone reperibile solo nella morte, morte

          inflittagli da una bestia che sembra incarnare ciò ch’egli rifiuta. All’altro capo
          dell’antitesi  sta  l’infuocata  Venere  e  la  sua  apoteosi  dell’animalità;  e  per
          quanto  la  dea  si  sforzi  di  innalzare  il  suo  corteggiamento  ad  un  livello
          convenientemente  divino  articolando  i  suoi  discorsi  secondo  le  convenzioni

          cortesi della poesia d’amore elisabettiana, la rapacità sessuale che li detta
          manda  una  luce  umoristica  piuttosto  beffarda  su  quelle  stesse  convenzioni
          platonizzanti: «mai dea fu più legata alla terra», scrive Keach, «o più umana
          nel  suo  desiderio  di  rendere  eterea  la  essenziale  fisicità  dell’esperienza

          sensuale». Ciò che Shakespeare ha fatto è dunque presentare, incarnati in
          due  personaggi  come  due  principi  separati,  i  due  aspetti  dell’amore  che  il
          Rinascimento neoplatonico si dilettava di vedere come paradossalmente fusi.
          In tal modo, nota Rabkin, «Shakespeare idealizza due visioni incompatibili; e

          così la critica semplicistica viene spinta a glorificarne una a spese dell’altra».
          L’antitesi  originaria,  dunque,  non  si  risolve  e  sussiste  in  vorticose
          reincarnazioni emblematiche e cromatiche fino alla fine: fin nella bava mista
          di  sangue  e  latte  del  cinghiale,  fin  nel  fiore  bianco  e  rosso  in  cui  si

          metamorfizza  Adone.  Ma,  sussistendo,  l’antitesi  tiene  in  vita entrambi  i
          termini e li aggioga l’uno all’altro facendoli coesistere, anche se in uno stato
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