Page 2107 - Shakespeare - Vol. 4
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impedisce  alla  Venere  di  Shakespeare  di  rivestirsi  poi  dell’augusta
          autorevolezza  della Venus  Genetrix  lucreziana,  e  di  intonare  una  solenne
          difesa  delle  sacre  leggi  della Natura Naturans  con  parole  quasi  identiche  a
          quelle che Shakespeare stesso rivolge al giovane dei Sonetti. Sarà dunque, il

          poemetto, sotto una veste burlesca ed eroicomica, un «inno anti-spenseriano
          all’Amore  Terrestre»,  una  «celebrazione  della  Carne»,  una  sua  difesa  dagli
          attacchi  di  «moralisti  puritani  e  teorici  neoplatonici»,  come  appare  alla
          Bradbrook e a Muir? Può essere; ma quando Venere, scarmigliata e fumante,

          assume  le  voraci  sembianze  di  un’aquila  affamata  e  di  un  avvoltoio,  la
          celebrazione  della  Carne  sembra  trascolorare  in  un  disgusto  molto  affine  a
          quello che emerge per la lussuria, «spirito speso in uno spreco infame», nel
          tremendo  sonetto  129.  Avrà  allora  ragione  C.S.  Lewis,  per  il  quale  «o  il

          poema è scritto per suscitare il disgusto, oppure è scritto in maniera molto
          sciocca»?  Certo,  se  Shakespeare  ha  scritto Venere  e  Adone  per  instillare
          l’orrore  per  la  lussuria,  allora  la  sua  popolarità  nei  bordelli  e boudoirs
          cinquecenteschi risulta altamente incongrua, e anche a prescindere dal senso

          comune  ed  altre  considerazioni  possiamo  convenire  con  A.C.  Hamilton  che
          «qualunque sia la natura del poemetto, la reputazione contemporanea e la
          tradizione  che  esso  stabilisce  negano  il  suo  intento  di  essere  un
          ammonimento  contro  la  lussuria».  Ma  quando  Lewis  si  sente  mancare  il

          respiro di fronte a questa «creatura affannata, ansimante, sudata, soffocante
          e  loquace»,  e  ricorda  sgomento  «certi  orribili  incontri  infantili  con  certe
          voluminose parenti femmine», la sua reazione non coglie forse qualcosa che
          nel poemetto effettivamente c’è?

          Quando  Coleridge  nota  che  «il  soggetto  stesso  non  può  che  diminuire  il
          piacere  di  una  mente  delicata»,  procede  anche  a  rassicurare  il  lettore  che
          «mai poema fu meno pericoloso dal punto di vista morale», e ciò a causa de
          «l’assoluto distacco dei sentimenti propri del poeta da quelli di cui egli è a un

          tempo  il  pittore  e  l’analista».  C’è  da  chiedersi,  tuttavia,  se  invece  che  dal
          «distacco»  tale  inoffensività  morale  non  discenda,  al  contrario,  da  una
          “identificazione” molteplice e simultanea coi diversi e conflittuali sentimenti
          che dipinge e analizza. Tenendo presente che il diciannovenne Southampton,

          dedicatario  del  poemetto,  è  anche  il  più  autorevole  candidato  al  ruolo
          dell’amato  giovane  dei  Sonetti,  è  difficile  non  convenire  con  Hughes  che  il
          poemetto sembra drammatizzare i diversi e conflittuali sentimenti propri del
          poeta, così come sono dipinti e analizzati nei sonetti. Come già s’è visto, le

          parole con cui Venere celebra la sacra legge naturale della generazione sono
          quasi identiche a quelle che Shakespeare rivolge al suo giovane gentiluomo
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