Page 2106 - Shakespeare - Vol. 4
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ci  sono  quelli  che,  giustamente,  colgono  il  lato  comico,  ma  avendolo  colto
          ritengono  anche  di  doverne  dedurre  che  un’opera  così  leggera  e witty  non
          può  avere  alcun  significato  serio;  dall’altra  ci  sono  invece  quelli  che,
          altrettanto  giustamente,  lo  vedono  baluginare,  questo  significato  più  serio;

          ma  allora  o  diventano  ciechi  nei  confronti  della  leggerezza  e  del wit,  o  lo
          deplorano in quanto contraddittorio e inadatto alle profondità intraviste. R.
          Putney  e  Ted  Hughes  ne  sono  due  buoni  esempi.  Il  primo,  stabilito  che  il
          poemetto è essenzialmente comico, ne deduce che si tratta di una deliziosa e

          impeccabile  «bagatella»;  il  secondo  scopre  in  questa  bagatella  la  chiave
          mitica  dell’intero corpus  tragico  shakespeariano,  ma  in  nessun  momento
          sembra  avvertire,  o  ritenere  importante,  che  quella  chiave  è  comica.
          Entrambe le visioni sono vere, ma entrambe sono anche inadeguate, perché

          la  scrittura  shakespeariana  è  indistricabilmente mista,  nel  preciso  senso
          alchemico cinquecentesco della parola mixtum: una sostanza sintetica, come
          lo definisce A. Koyré, in cui convivono in tensione elementi opposti, senza che
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          l’uno  distrugga  l’altro.    Una  scrittura  di  questo  tipo  richiede  un  orecchio
          stereofonico,  oppure  un  occhio  dolato  di  ciò  che  W.H.  Auden,  in New  Year
          Letter, chiamava «il dono del doppio fuoco»: una «lanterna magica» che ci
          consente  di  ingannare  il  diavolo  il  quale,  per  parte  sua,  non  ci  dice  mai  il
          falso,  ma  «solo  mezze  verità  che  possiamo  sintetizzare».  Si  tratta  di

          prestazioni percettive che è più facile raccomandare in astratto che praticare
          in  concreto,  e  tuttavia  tanto  stretto  e  vitale  è  il  legame  tra  gli  elementi
          conflittuali che compongono il mixtum, che se ne omettiamo uno finiamo per
          depotenziare anche l’altro, cioè proprio quello che si intendeva unicamente

          affermare.
          Prendiamo,  ad  esempio,  la  situazione  “comica”  di  partenza,  che,  alterando
          Ovidio, può far variamente apparire Venere come «una contessa quarantenne
          con un debole per i giovani cantori della Cappella Reale» (Allen); o «un’eroina

          di Colette impegnata nella seduzione di un ragazzo» (Muir); o infine (come
          appare  nell’Ulisse  a  Stephen  Dedalus,  memore  del  precoce  matrimonio  di
          Shakespeare)  «una  sfacciata  contadinotta  di  Stratford  che  in  un  campo  di
          grano fa capitombolare un amante più giovane di lei». Che questo soggetto

          robustamente femminile, acceso di carnalissime voglie, si butti fin dalla prima
          strofa addosso ad Adone e prenda «spudoratamente» a corteggiarlo con un
          linguaggio intriso di petrarchismo e neoplatonismo è naturalmente buffo. Già
          in  Lodge,  d’altronde,  un’analoga  alterazione  della  fonte  ovidiana  si  era

          tradotta,  come  nota  W.  Keach,  in  «un  abile  e  ornamentato  scherzo  sulla
          poesia d’amore elisabettiana». Ma, a differenza che in Lodge, lo scherzo non
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