Page 2104 - Shakespeare - Vol. 4
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non migliorerà di molto neppure dopo che, con T.S. Eliot e la sua campagna
          critica  anti-romantica,  la  concettosità  e  il wit  abbandoneranno  l’esilio  della
          non-poesia per rimpatriare nella poesia. Perché nel suo zelo legittimistico la
          restaurazione  moderna  del wit  lo  trasforma  anche  in  attività  metafisico-

          terapeutica non solo seria, ma addirittura solenne, il che a sua volta sembra
          aver  l’effetto  di  render  sordi  al  tono  di  franca  commedia  del  poemetto.
          Leggendolo  sprovvedutamente,  sembrerebbe  dovesse  trattarsi  del  tono  più
          immediatamente percepibile fin dalla Venere «spudorata» della prima strofa,

          eppure, perché se ne avveda un lettore avveduto, bisogna attendere il saggio
          di Rufus Putney, il quale nel 1941, fortificato da una salda erudizione, oserà
          sostenere  audacemente  che  la  tradizione  seguita  da  Shakespeare  è
          «dimostrabilmente  comica»,  che Venere  e  Adone  «intendeva  essere

          divertente», e che «solo a costo di uno sforzo cosciente possiamo mantenere
          un atteggiamento solenne».
          La comicità, d’altronde, è inscritta nell’argomento stesso, che deriva, sì, dal
          decimo libro delle Metamorfosi, ma con un’importante variazione. L’Adone di

          Ovidio non si sottraeva affatto agli abbracci di Venere: semplicemente, dopo
          che Venere ha aggiogato i cigni ed è spontaneamente decollata per Cipro, il
          giovane  cacciatore  dimentica  i  prudenti  consigli  della  dea,  e  quando  i  suoi
          segugi scoprono un cinghiale, lo insegue e ne rimane ucciso. In Shakespeare,

          invece,  la  dea  è  «una  creatura  affannata,  ansimante,  sudata,  soffocante  e
          loquace» (come appare all’inorridito C.S. Lewis) che tenta tutto, ma proprio
          tutto,  il  tentabile  senza  riuscire  in  alcun  modo  a  espugnare  la  ritrosia  del
          giovinetto  Adone  −  «invano,  gran  regina,  non  funziona»,  la  compatisce

          Shakespeare stesso.
          Si potrebbe dunque rivolgere a Shakespeare la critica che nel 1584 Raffaello
          Borghini  rivolgeva  a  Tiziano  per  essersi  in  un  suo  quadro  allontanato  da
          Ovidio «fingendo Adone da Venere, che sta in atto di abbracciarlo, fuggire;

          dove egli molto desiderava i suoi abbracciamenti». Siccome il quadro rimase
          a lungo in Inghilterra, essendo una delle «poesie» (come Tiziano stesso le
          chiama) che nel 1554 il pittore invia a Londra a Filippo II (che s’era appena
          sposato  con  Mary  Tudor,  la  «sanguinaria»),  E.  Panofsky  propose  questo

          Venere spregiata da Adone (ora al Prado) come possibile fonte dell’analoga
          variazione  shakespeariana.  In  effetti,  la  scena  notturna  in  cui  Adone  si
          strappa  alla  «dolce  stretta»  di  Venere,  «lasciando  amor  riversa  e  molto
          afflitta» (v. 814), potrebbe benissimo fungere, fin nei dettagli delle rispettive

          posture, come «parafrasi poetica della composizione di Tiziano». Il parallelo
          resta interessante anche (e a dir la verità di più) se di “fonte” non dovesse
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