Page 2105 - Shakespeare - Vol. 4
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trattarsi.
          Di  fonti,  d’altronde,  se  ne  possono  trovar  molte,  a  cominciare  dalle
          Metamorfosi  stesse,  dove  nel  quarto  libro  la  ninfa  Salmacide  sottopone  il
          quindicenne Ermafrodito a un pesantissimo corteggiamento (un quasi-stupro,

          in  effetti),  chiaramente  riecheggiato  nel  poemetto.  Ma  il  comico
          corteggiamento femminile del maschio riluttante compariva già in Lodge, che
          inaugurando il genere del poemetto mitologico aveva egli stesso invertito la
          normalità della situazione ovidiana di partenza, dove un infiammato Glauco

          inseguiva,  come  si  compete,  una  debitamente  modesta  Scilla.  Si  tratta
          dunque, fin dagli inizi, di uno dei tratti caratteristici dell’epillio, assieme a un
          generale tono di insolenza lucianesca nei confronti degli dei, e a un’ancor più
          generale tendenza alla parodia nella generazione di Shakespeare e Marlowe.

          Infine, nella ricerca di fonti o sfondi per questa storia di un giovane devoto di
          castità e caccia che spregia Venere e finisce ammazzato da una fiera non si
          può  certo  non  ricordare,  assieme  a  D.C.  Allen,  la  storia  dell’Ippolito  di
          Euripide, ben nota agli elisabettiani via Seneca. In Euripide il toro che causa

          la morte del casto cacciatore Ippolito, devoto solo di Diana, è uno strumento
          della vendetta della spregiata Venere, ed è forse solo su questo sfondo che
          assume  il  suo  pieno  significato  la  curiosa  identificazione  della  Venere
          shakespeariana  col  «porco  innamorato»  che  ammazza  Adone  a  baci

          «nell’inguine»  (vv.  1111-18).  L’impudica  bestia  potrebbe  in  tal  caso  essere
          anche  una  “forma  terribile”  di  Venere  stessa,  che  giunge  a  riscuotere  in
          quanto  animale  ciò  che  le  è  stato  negato  in  quanto  dea.  Il  più  radicale
          sostenitore di questa linea interpretativa è il poeta Ted Hughes, che da un

          lato  vede  nel  disegno  mitico  dell’Ippolito  la  «cifra»  nascosta  di Venere  e
          Adone, e che dall’altro in Venere e Adone ritrova «la chiave dell’unità mitica»
          di tutta quanta la successiva produzione tragica di Shakespeare.
          Sullo sfondo corrusco di questi abissi mitico-tragici sembrerebbe di ritrovarsi

          agli  antipodi  di  quella  franca  e  magari  grossolana  comicità  da  cui  siamo
          partiti.  Ma  se  da  un  lato,  leggendo Venere  e  Adone,  non  si  può  non
          cominciare col  ridere,  a  meno  di  non  sforzarci  stoicamente  di  non  farlo,
          dall’altro  è  solo  a  costo  di  uno  sforzo  specularmente  inverso  che  possiamo

          sperare di finire ridendo soltanto − una situazione conflittuale niente affatto
          facile  per  il  lettore,  questa  della  compresenza  degli  antipodi  di  comico  e
          tragico,  ma  che  non  potrebbe  essere  più  tipicamente  shakespeariana.  In
          effetti, come ha notato J.C. Maxwell, se tanta parte della critica del poemetto

          risulta pericolosamente sbilanciata e rischia di naufragare è perché i lettori
          tendono a far mucchio in due categorie mutuamente esclusive. Da una parte
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