Page 2102 - Shakespeare - Vol. 4
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PREFAZIONE
I poemetti qui presentati sono un po’ i parenti poveri dell’illustre famiglia
shakespeariana; se i sonetti, infatti, godono di fama quasi non inferiore ai
drammi, non si può certo dire altrettanto del resto della produzione non
teatrale di Shakespeare: Venere e Adone, Lucrezia, La fenice e la tortora.
Pure, con le sue 16 edizioni prima del 1640, Venere e Adone fu senz’altro
l’opera di Shakespeare più popolare ai suoi tempi: c’era chi riteneva di non
andare a letto senza riporne una copia sotto il cuscino, e chi a causa sua
riteneva di lasciare Spenser e Chaucer all’ammirazione degli stolti per
tributare una venerazione esclusiva al «dolce Shakespeare». Qui non si tratta
di lamentare la successiva scarsa fortuna dei poemetti, ma di inquadrarli
brevemente, di notarne i legami di consanguineità coi parenti ricchi, e infine
di segnalare come i veneratori cinquecenteschi avessero le loro ragioni −
ragioni che continuano (o son tornate) ad essere comprensibili.
«Venere e Adone»
Venus and Adonis venne pubblicato nel 1593, accompagnato da una dedica a
Henry Wriothsley, conte di Southampton, in cui l’autore definisce il poemetto
«primo erede della mia invenzione». Dunque, è la prima opera (e con
Lucrezia, pubblicato l’anno dopo, la sola) che Shakespeare abbia mai
pubblicato di sua iniziativa e riconosciuto come propria. Dal ’92 al ’94 i teatri
londinesi restarono chiusi a causa della peste, e il giovane drammaturgo, già
noto come autore di circa quattro pièces, era dunque forzatamente
disoccupato e in cerca di un patrono. Cosa si ripromettesse con questo
poemetto mitologico risulta abbastanza chiaro dall’orgogliosa citazione
ovidiana che lo introduce:
Vilia miretur vulgus: mihi flavus Apollo
Pocula Castalia piena ministret aqua.
Ammiri il volgo ciò ch’è vile: a me il biondo Apollo
versi coppe ricolme di acqua Castalia.
Circa sei mesi prima era stata pubblicata un’operetta del letterato Robert