Page 2103 - Shakespeare - Vol. 4
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Greene,  in  cui  un  certo Shake-scene  («Scuoti-scena»),  che  si  avventurava
          sfacciatamente a scrivere in versi, quasi avesse avuto un’educazione, veniva
          ricacciato al suo posto di teatrante, tra mimi, buffoni e il volgo che li ammira.
          Ora, con Venere e Adone, l’attore disoccupato oggetto di questa denigrazione

          sociale guadava arditamente l’abisso di prestigio che separava il teatro dalla
          poesia  colta,  e  gonfio  non  di  birra,  ma  di  acqua  Castalia,  rivendicava  una
          patente  di  nobiltà.  Per  farlo,  si  cimentava  in  un  nuovo  genere,  che  non
          avrebbe  potuto  essere  più  elegante,  libertino,  italianato  −  e  dunque

          presumibilmente adatto al gusto di un giovane aristocratico scapestrato come
          Southampton: l’epillio erotico-mitologico di argomento ovidiano.
          Inaugurato  quattro  anni  prima  da  Thomas  Lodge  col  suo Scillaes
          Metamorphosis,  portato  contemporaneamente  a  perfezione  da  Christopher

          Marlowe con Hero and Leander e da Shakespeare stesso, e poi ripetutamente
          imitato  nei  decenni  successivi,  il  poemetto  mitologico-narrativo  è  il  genere
          più alla moda degli anni ’90 e quello in cui la poesia elisabettiana raggiunge
          un livello di sofisticazione e sprezzatura che le consente di competere ad armi

          almeno pari con le contemporanee letterature neo-latine. Nel porvi mano, sia
          Marlowe che Shakespeare han dunque cura di far mulinare e scintillare tutto
          l’armamentario retorico di cui dispongono: dialettica amorosa, parodia della
          casistica  petrarchesca  e  neoplatonica,  giochi  di  parole  ribaldi,  “concetti”

          quanto  più  possibile  ingegnosi, wit  erotico, humour che  va  dall’arguto
          all’apertamente  farsesco.  Tra  gentiluomini  e  cortigiani  l’apprezzamento  di
          queste  caratteristiche  è  tale  che  il  poemetto  di  Shakespeare  (assieme  a
          quello  di  Marlowe)  diventa  rapidamente,  per  dirla  con  Douglas  Bush  (che

          intende  essere  sarcastico),  «il vade                   mecum dell’amatore,  ugualmente
          popolare nella biblioteca, nel boudoir e nel bordello».
          Proprio queste caratteristiche, tuttavia, lo renderanno indigesto per il gusto
          romantico e tardo-romantico. Già S.T. Coleridge, che pure ripesca per primo il

          poemetto dall’oblio in cui era affondato nel diciottesimo secolo augusteo, non
          manca  di  notare,  nel  capitolo XV  della  sua Biographia  Literaria,  che  «il
          soggetto stesso non può che diminuire il piacere di una mente delicata». Se il
          soggetto spiaceva per l’indelicatezza, spiaceva anche l’artificiosa concettosità

          del trattamento, e così per molto tempo le uniche parti degne di Shakespeare
          sembrarono gli inserti naturalistici: quelli in cui con meravigliosa freschezza,
          come avesse intinto la penna nella rugiada, il poeta dipinge en plein air la
          povera lepre inseguita, la lumaca che si ritrae nel guscio... Il risultato, notava

          Buxton nel 1963, è che «350 anni fa Venere e Adone veniva lodato perché
          era artificiale, mentre adesso viene lodato dove è naturale». Ma la situazione
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