Page 2196 - Shakespeare - Vol. 3
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teatrale, ma anche la dimensione della poesia. Non per nulla di entrambi i
          protagonisti vien detto e dimostrato come i difetti siano forme di virtù, e le
          virtù  macchiate  dai  difetti.  Dove  e  come  predomina  la  fredda  e  legalistica
          logica di Roma, subito ricompare la visione delle fascinose mollezze d’Egitto.

          Se il nuovo ordine si consolida in vincoli, per il principio del paradosso proprio
          la forza di quei vincoli finirà per strangolare l’amicizia; ed è un mondo in cui,
          come ricorda Menas nella scena dell’ubriacatura collettiva sulla nave, basta
          tagliare una gomena per ritrovarsi subito in alto mare. Il cupio dissolvi a cui

          fin troppo scopertamente si abbandonano Antonio e Cleopatra nasconde così
          un  indubbio  elemento  di  decadenza  (e  decadentismo)  ma  rivela  anche  un
          disprezzo  per  le  cose  terrene,  una  volontà  di  misurarsi  su  più  ampie
          dimensioni,  che  alla  fine  del  dramma  potrà  proporsi  come  affermazione  e

          valore di contro alla stessa pochezza dell’esser Cesare. Nel corso dell’atto III e
          dell’atto IV Antonio si gioca la propria superiorità e prosperità conducendo la
          guerra  con  Cleopatra,  accettando  di  combattere  sul suo  elemento  infido  (il
          mare), bruciando per chisciottismo le navi in sovrappiù, infuriando poi contro

          se stesso e contro la regina che presume traditrice. Eppure nel teatralismo e
          nell’esaltazione  nevrotica  di  Antonio  rimangono  costanti  elementi  di
          grandezza e nobiltà d’animo, la capacità di conquistare il cuore e la fedeltà
          dei seguaci (tanto che Enobarbo, dopo aver disertato, morirà letteralmente di

          dolore per lui), quasi il segno del superuomo. Il porsi al di sopra del mondo
          porta  ad  una self-dramatization colpevole e debilitante in entrambi: eppure
          anche lì si ritrova il germe di una superiorità, onde da un lato la battaglia si
          risolve  in  un  trittico  di  sconfitta-vittoria-sconfitta,  e  quanto  più  si  perdono,

          tanto più i due protagonisti sembrano avviarsi ad un trionfo non meno intenso
          per essere generato dalle ceneri della sconfitta.
          Nel corso del IV e del V atto prima Antonio e poi, rimasta sola, Cleopatra si
          spogliano  letteralmente  e  metaforicamente  degli  attributi  terreni;  il cupio

          dissolvi si attua nella realtà e si esalta nella fantasticheria; i due vagano nei
          terreni dove le forme di sfaldano e i contorni si dissolvono («as water is in
          water», secondo il celebre detto di Antonio), la forza è nemica di se stessa, si
          anela all’Elisio. David Daiches vede in questa loro quasi agognata perdita di

          identità la ricerca d’una identità al di fuori del tempo, ed ha in parte ragione;
          solo  che  anche  qui  il  dilemma  tragico  è  chiastico.  Ci  si  proietta  nella
          dimensione dell’aldilà e dell’Elisio perché si è perso tutto sulla terra, e non
          resta altra via: eppure fin dall’inizio era quella la dimensione del sogno e del

          superamento a cui si abbandonavano gli amanti. Alla conclusione, Cleopatra
          stessa  −  pur  non  rinunciando  mai  alla  sua  duplicità  e  doppiezza,  al  tono
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