Page 2200 - Shakespeare - Vol. 3
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della luce e dell’avvio al buio (IV, xiv, 35-36 e 46-47; IV, xv, 85 e V, ii, 192-
          193). Nel cupio dissolvi, però, oltre al germe della decadenza c’è pure intima
          grandezza, giacché esso è riferito non solo alla persona e all’impero, ma al
          mondo  stesso  e  all’universo.  Numerose  sono  nel  dramma  le  immagini  del

          mondo  e  del  firmamento  (terra,  cielo,  pianeti  ecc.)  unite  a  immagini  di
          maestosa  grandezza  (empire,  majesty,  king,  queen)  e  di  dimensione  e
          ampiezza.  Esse  forniscono  la  misura  di  quel  dilatarsi  degli  spazi  reali  e
          simbolici in cui ambiscono a vivere Antonio e Cleopatra e su cui si proietta la

          loro  vicenda.  Fra  le  immagini  che  esprimono  l’immensità  dello  sfondo
          imperiale e del ruolo di Antonio (pilastro e semi-Atlante del mondo, corona
          della terra, e simili) si inseriscono frequenti allusioni e riferimenti mitologici
          (la discendenza di Antonio da Ercole, la sua furia da Aiace Telamone, il suo

          sognarsi come Enea nell’Elisio) che servono a delineare l’alone irreale, quasi
          mitico,  della  sua  figura.  Equiparato  a  Marte  (come  Cleopatra  a  Venere),
          Antonio ha le doti alchemiche dell’elisir di lunga vita. Pure frequenti sono i
          riferimenti  al  Fato  e  alla  Fortuna.  Più  volte  nel  dramma  ci  si  richiama  alla

          cosmologia  tolemaica,  alle  sfere  o  «cieli»  di  dantesca  memoria,  sia  per
          indicare che l’azione coinvolge l’intero universo, sia per asserire la dimensione
          dilatata su cui si muovono i protagonisti.
          Ora questa dimensione dilatata, mitica, irreale − «past the size of dreaming»,

          astratta e talvolta puramente teatrale − è postulata e raggiunta in spregio e
          a prezzo del mondo storico e della stessa realtà. Per Antonio fin dall’inizio i
          regni son creta (I, i, 35-37), e gli fa eco Cleopatra alla conclusione (V, ii, 7-9).
          Il mondo è letame, mera caducità: «è misera cosa, essere Cesare» (V, ii, 2);

          dopo  la  scomparsa  di  Antonio  non  c’è  più  nulla  di  grande  nel  mondo
          sublunare (IV, xv, 66-68). Il mondo e l’impero vengono «kiss’d-away» ( III, x,
          7-8).  Il  dissolvimento  va  dunque  oltre  il  terreno  e  l’effimero,  per  cui  la
          negatività e il cupio dissolvi dei protagonisti partecipano paradossalmente di

          grandezza e miseria.
          Nella loro forza è la loro debolezza e nella loro debolezza la loro forza, così
          come  nella  loro  tragedia  è  il  loro  trionfo  e  il  loro  trionfo  si  attua  nella
          tragedia,  secondo  un  procedimento  ondulatorio,  sì,  ma  in  ultima  analisi

          circolare, che si richiude su se stesso e non ammette deviazioni, è coerente
          sia  sul  piano  dell’azione  drammatica,  sia  sul  piano  del  linguaggio  e  della
          imagery. Il paradosso e l’iperbole sono la naturale e necessaria caratteristica
          del  linguaggio,  mentre  la  ricchezza  e  il  fitto  intrecciarsi  delle  immagini

          riflettono,  esprimono,  e  «tengono  assieme»  la  complessità  del  significato
          drammatico  e  la  sua  intima  tensione  poetica.  Siamo  di  fronte  ad  uno  dei
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