Page 2198 - Shakespeare - Vol. 3
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audace,  ellittica,  basata  su  un  fraseggiare  più  espressivo  che  referenziale,
          ovvero referenziale nella sua intima intensità espressiva. Come il dramma si
          sviluppa  per  scene  e flashes  d’azione  giustapposti  con  estrema  libertà
          spaziale e temporale, così il linguaggio rifugge dalla distensione discorsiva o

          dall’articolazione  sintattica,  per  racchiudersi  in  folgoranti  enunciazioni
          poetiche  che  per  la  loro  stessa  compressione  richiamano,  coinvolgono  o
          includono  amplissime  aree  semantiche.  È  stato  detto  che  «Shakespeare
          short-circuits  grammar»,  in  questo  dramma:  il  linguaggio  brucia

          elettricamente  del  proprio  calore  e  ne  restano  incandescenti  nervature,
          flashes  in  cui  lo  svolgimento  logico  o  sintattico  è  «fuso»  e  in  ogni  senso
          inestricabile  dall’immagine.  La  fantasia,  più  che  la  logica,  deve  intuirne  il
          senso e il valore. Come «spiegare» enunciati come «O, my oblivion is a very

          Antony, / And I am all forgotten” ( I, iii, 90-91) o il celebre «My salad days, /
          When I was green in judgment, cold in blood, / To say as I said then” ( I, v,
          73-75).  Questo  linguaggio  fantasioso  e  suggestivo,  teso  e  «aperto»,
          rispecchia la temperie manieristica o «metafisica» del primo Seicento nella

          sua  ardita  mescolanza  di  sublimità  poetica  e  aderenza  alle  cose,  nella  sua
          capacità  di  «aggiogare»  (come  diceva  Samuel  Johnson)  idee  astratte  e
          metafore concrete e di svolgere al massimo di ingegnosità il «concetto». È il
          linguaggio  dell’intima  contraddizione  e  del  paradosso  significativo,  della

          duplicità  per  pienezza  di  senso  e  complessità  d’esperienza.  L’iperbole  e  il
          paradosso sono inerenti ai personaggi, ai loro aneliti e alla loro esperienza;
          ma investono del pari l’azione drammatica e il linguaggio che l’esprime. È il
          linguaggio,  inoltre,  più  ricco  di  immagini,  in  Shakespeare,  dopo Troilus and

          Cressida  e Hamlet (secondo il computo della Spurgeon). Si noterà in primo
          luogo  come  il  mondo  di  Roma  venga  caratterizzato  da  immagini  di  fredda
          concretezza  e  «consolidamento»  (verbi  come to  join,  cement,  «cerchi»  e
          «vincoli»)  nonché  da  certa  terminologia  legale  cui  indulge  Ottaviano.  Di

          contro, il mondo d’Egitto è contraddistinto da ricorrenti immagini d’acqua e di
          fluidità.  Cleopatra  è  identificata  col  Nilo  o  con  Iside,  la  «fleeting  moon».
          L’acqua è teatro di dissipazione per gli amanti ( I, iii, 4; II, v, 10-12), luogo di
          languida  sensualità  (II,  ii),  fomenta  la  corruzione,  sia  nelle  parole  di

          Ottaviano (I, iv, 44) che nelle parole di Cleopatra ( V, ii, 57-60). Il dotage di
          Antonio «o’erflows the measure» e sul mare infido egli viene sconfitto una
          prima volta e definitivamente nella terza giornata.
          Ma per la loro natura paradossale, il limo e l’acqua sono anche portatori di

          vita  e  di  ricchezza:  lo  straripare  del  Nilo  porta  feracità,  e  per  la  sua
          identificazione con esso Cleopatra mescola corruzione e fertilità, dissipazione
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