Page 1945 - Shakespeare - Vol. 3
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Muse, a Eros e ad Afrodite.
          Ma neanche l’antagonista Malcolm può etichettarsi come «eroe positivo». È
          semplicemente uno che aggiunge alle doti guerriere la cautela, il calcolo e
          l’abilità  politica.  Non  c’è  nulla  di  moralmente  bello,  se  non  nella  ormai

          secolare idealizzazione di critici e teatranti, in quelle scene del dramma che
          passano  per  «positive»,  dove  appaiono  guerrieri  catafratti  dediti  ai  loro
          macelli − il buon Seyward sarebbe disposto a sacrificare cento e cento figli a
          una  morte  in  battaglia  −,  re  e  vassalli  che  recitano  fino  al  pathos  e  alle

          lacrime  la  recita  sontuosa  della  regalità,  baroni  in  fuga  che  demonizzano
          l’usurpatore,  ed  eserciti  vendicatori  che  si  dicono  protetti  da  ali  d’angeli  e
          dalla Grazia. Solo le vittime ci commuovono, e il dolore di Macduff. Le belle
          parole dei lealisti non coincidono coi loro atti feroci. Più astuto di quanto non

          lo  credano  i  critici,  Shakespeare  conclude  il  dramma  su  un  registro
          particolarmente freddo, crudele, mediocre e burocratico. La restaurazione di
          Malcolm  si  riduce  a  poco  più  che  una  distribuzione  di  ricompense  e  un
          programma  di  purghe.  In  quest’ultima  brutale  scena,  che  per  la  lettura

          tradizionale dovrebbe segnare la chiusura nell’armonia e nella riconciliazione
          della dinamica tragica e il suo superamento, la testa del «macellaio morto» è
          gettata ai piedi del nuovo re da un macellaio vivo, senza neanche la parola di
          rispetto per gli uccisi che raramente è negata pur nel «mondo da cannibali»

          (Brecht)  dei  drammi  storici  e  delle  tragedie.  La  distruzione  dell’eroe
          demonizzato  libera  negli  spettatori  non  effetti  catartici,  ma  casomai
          sensazioni gratificanti di soddisfazione morale. Tanto vicini sono negli uomini
          grandezza  e  degradazione,  che  la  ragione  vuol  tenerle  accuratamente

          separate.  Così  non  si  coglie  l’indicazione  tragica  sui  significati  profondi  del
          male e della violenza, che è suggerita dal fascino di figure come Macbeth e
          Riccardo III, o di Medea e di Don Giovanni.
          È solo in un’ottica moralistica che Shakespeare parteggia per la giustizia di

          Duncan  e  di  Malcolm  contro  l’ingiustizia  di  Macbeth.  Non  bisognerebbe
          confondere  col  «messaggio»  di  Shakespeare  −  che  casomai  è  nella  sua
          stessa e globale visione tragica della vita − ciò che dicono di Macbeth i suoi
          avversari, né ciò che dice di sé o degli altri alcuno dei personaggi, e neanche

          la repulsione che sentiamo per le azioni dell’eroe tiranno. Shakespeare, che
          pure ha un’ampiezza di visione e un linguaggio che possono dirsi danteschi,
          non  è  un  poeta  portatore  di  affermatività  come  Dante.  Nella  sua
          «impassibilità filosofica» (Coleridge) egli non si compiace né si sdegna per i

          delitti e la fine dell’eroe, come non si compiace né si sdegna per le colpe e la
          fine di Lady Macbeth, che svolto il compito assegnatole nei disegni del fato
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