Page 1943 - Shakespeare - Vol. 3
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fa  notare  giustamente  (in La ruota di fuoco, 1930) che «la volontà non ha
          posto... nel mondo appassionato delle grandi tragedie», perché la tragedia
          «si occupa solo di quelle sorgenti più profonde dell’azione che il concetto di
          volontà  tende  a  offuscare».  Il  pugnale  fantasma  che  guida  Macbeth  per  la

          strada  da  lui  intrapresa  (II,  i,  42)  esprime  perfettamente  la  doppia
          motivazione, concorso di volizioni umana e divina, di libertà e servitù. Come il
          prodigio  apparso  all’armata  greca  nel  cielo  di  Aulis,  le  «sollecitazioni
          soprannaturali» sono per Macbeth ambigue, insieme positive e negative. La

          sua impresa sarà come quella di Agamennone, «vinta e perduta».
          Nelle parole degli altri, durante la parodo guerresca della tragedia, Macbeth
          appare iperbolicamente audace e sanguinario. Ma sua moglie vede o travede
          in lui un eccesso di umana dolcezza. Egli esita a rompere il patto che lo lega

          al mondo in cui crede, ma lo trascina la hýbris che è l’obbligo del ghennáios,
          del nobile, a osare, la tensione incessante che è dell’esistenza eroica. Questa
          dismisura  o  tracotanza  −  la security di  cui  parla  Ecate  in III, v, 32-33 − lo
          consegnano  a  un  destino  che  incomincia  a  porsi  come  conflitto  e  scissione

          interiore. In quella meditazione ben poco machiavellica sullo Schuldfrage, sui
          rapporti tra azione e morale, che è il secondo soliloquio, egli vuole ridurre la
          sua scelta al livello terreno. Ma il linguaggio che usa (i cherubini sui cavalli
          d’aria,  il  bimbo  nudo  che  cavalca  la  tempesta)  sfugge  al  filo  della  logicità,

          veicola  per  immagini  i  significati  profondi,  riafferma  nell’inconscio  l’aldilà
          respinto  dalla  coscienza.  Macbeth  non  è  un villain machiavellico,  anzi
          condivide  la  morale  degli  antagonisti.  La  sua  scelta  è  tra  il  «gioiello
          dell’anima»  e  il  gioiello  della  Corona,  realizzazione  somma  e  potere  che

          supera la morte estendendo la vita del re alla sua dinastia. Ma fatta la scelta,
          persa  l’anima  e  stabilito  il  suo  anti-ordine,  Macbeth  resta  fedele  al  proprio
          destino anche quando il possesso si rivela effimero e vuoto com’è per lui ora
          la vita. Ha gettato uno sguardo nell’abisso e vi ha visto il suo stesso orrore.

          Ciò che ha fatto ha dunque il marchio della genuinità, è stato una conoscenza
          che avvicina all’essenza delle cose. Questo crede Macbeth e in questa fede e
          fedeltà è la sua grandezza. «Muore come rappresentante di un sacro mistero,
          coperto  di  religioso  orrore»:  così  Croce  commentava  la  fine  «austera»  di

          questa tragedia «filosofica».
          Nel suo teatro Shakespeare ci mostra eroi giovani, guidati da dei lungo la loro
          strada e perciò profondamente sicuri, nello splendore del successo come in
          quello della perdizione. Ma ci mostra anche eroi che invecchiano, nella fase in

          cui ogni aspetto dell’esistenza par adeguarsi man mano all’immobilità finale,
          e si confondono ciò che è stato e ciò che non è stato, ciò che è e non è. Esseri
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