Page 1947 - Shakespeare - Vol. 3
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edizioni  si  rimanda  per  i  problemi  relativi  al  testo,  e  anche  per  la
          localizzazione  implicita  delle  scene,  che  gli  editori  del  passato  indicavano,
          come semplice ausilio «narrativo» alla lettura. Il Macbeth si suppone scritto
          tra il 1603 e il 1606, fu rappresentato alla corte di Giacomo I nel 1606 e poi

          ripreso al teatro del Globo (una testimonianza tarda è del 1611); apparve per
          la  prima  volta  in  una  edizione  a  stampa  assai  scadente  nello  In-Folio  del
          1623. E furono i curatori, probabilmente, a dividerlo in atti e scene, seguendo
          l’uso invalso di «regolarizzare» in tal modo i lavori drammatici. A questo testo

          oggi i critici concedono maggior fiducia che nel passato, malgrado la brevità
          dell’opera (2100 righe) che ha fatto sospettare tagli e adattamenti.
          Il materiale leggendario su cui è fondata la trama si ritrova in diverse varianti
          nei  cronisti  scozzesi.  Fonti  del  dramma  sono  due  sezioni  delle Cronache

          (1587) di Holinshed, che assegna i fatti agli anni 1046-1057, e forse anche
          passi  della Rerum  Scoticarum  Historia  di  George  Buchanan.  E  non  sembra
          dubbio che nella affabulazione di Shakespeare vi siano intenti complimentosi
          e adulatori nei riguardi del re Giacomo I Stuart, sostenitore del diritto divino

          dei sovrani, cultore di stregoneria, nonché discendente, secondo la tradizione,
          da Banquo e dotato, pare, della virtù di guarire col tocco la scrofula o «male
          del  Re»,  come  il  «santo  re  inglese»  del  dramma.  La  fabula  del  resto  si
          prestava a essere vista come un esempio morale della divina punizione che

          cade sui traditori e usurpatori, o come uno studio sulle diverse modalità della
          funzione regale: il buongoverno di Duncan, il malgoverno di Macbeth, il santo
          governo di Eduardo il Confessore, la restaurazione provvidenziale di Malcolm.
          Se queste intenzioni ci sono state nell’autore esterno, esse sono bruciate nel

          fuoco  della  visione  tragica. Macbeth  è  una  scrittura  intensa,  essenziale,
          concentrata − non vi è intreccio secondario né vere scene comiche − stesa in
          un verso drammatico infranto e irregolare, dissonante e poderoso, o in una
          prosa rapida e potente. Una scrittura tipica dello Shakespeare maturo, ricca

          di  figure  antitetiche,  ossimoriche,  anfibologiche.  E  tuttavia,  quasi  per  non
          venire meno a quella problematicità connaturata nell’opera di Shakespeare, il
          testo  presenta  alcuni  difficili  problemi  di  attribuzione,  meno  oggi  che  in
          passato, quando apparivano ingiustamente sospette scene come I, i, I, ii, V, ii,

          V, ix, e addirittura la famosa scena del portiere (II,  iii,  1-21)  che  lo  stesso
          Coleridge riteneva spuria. Problematiche sono invece le cosiddette «scene di
          Ecate» (III,  v,  1-35  e IV,  i,  39-43  e  124-131,  più  le  canzoni  alle  quali  esse
          rimandano).  In  queste  scene  le  battute  di  Ecate  o  delle  streghe,

          caratterizzate da un ritmo giambico cantilenante, di contro al ritmo trocaico
          ossessivo delle scene stregonesche non sospette, fanno piuttosto pensare a
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