Page 1946 - Shakespeare - Vol. 3
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viene  come  scartata  e  abbandonata  all’autodistruzione:  e  anzi  l’ultima  sua
          apparizione la mostra come una vittima anche lei, una creatura che suscita
          pietà e non ha più nulla di diabolico. Shakespeare mostra «ciò che avviene».
          Che abbia una tesi morale è pregiudizio critico, come quello che fa di Eschilo

          e Sofocle gli esaltatori della religione olimpica.
          L’ambigua  astuzia  o  invidia  delle  potenze  soprannaturali  ha  intrappolato
          Macbeth,  uomo  di  egoismo,  di  passione,  di  vanità,  di  desiderio,  sull’apice
          della ruota della sua fortuna, che è anche la soglia del suo declino. Facendo

          leva sulla sua hýbris lo ha sollevato sul palco tragico dei re, ma solo per trarlo
          in inganno, per dargli la vittoria e poi togliergli subito tutto. Solidale al patto
          umano che viola, egli ritiene di essersi votato al demonio cristiano. Ma è un
          Fato  pagano  a  decidere  la  sua  caduta.  Egli  si  vorrebbe  indifferente  al

          sopramondo, come un gran capitano di ventura intento solo alla perfezione
          della Corona, che lo radica sul piedestallo della massima attuazione terrena,
          «solido come il marmo, stabile come la roccia» (III, iv, 21). Ma tale fiducia è
          contraddetta sin dall’inizio dall’ironia del linguaggio. Egli deve lottare non solo

          contro  i  nemici  ma  contro  il  suo  stesso  destino.  Lo  sforzo  non  può  riuscire
          perché il braccio e la mente sono guidati dal potere che orienta ogni pensiero
          e ogni colpo di spada. Il nocciolo tragico, subito annunciato come leit-motiv,
          che  nel Macbeth ci  mostra  il  genio  crudele  di  Shakespeare,  è  il  fatto  che

          l’eroe, con tanto dolore, si rende e crede responsabile di colpe che sono sue
          scelte  ma  che  non  poteva  non  commettere.  Egli  è  libero,  e  insieme  preda
          della Moira come una mosca in mano a ragazzi crudeli (Re Lear), come una
          palla da tennis delle stelle (Webster,  La duchessa d’Amalfi). Piano umano e

          piano cosmico, destino e libertà sono i poli del mondo tragico di Shakespeare.
          Come  conciliarli  è  quesito  senza  risposta. Macbeth  è  una  tragedia  senza
          morale,  un  dramma  aporetico  e  inconclusivo  che  non  finisce  di  sbalordire.
          Potrebbe chiudersi con l’ultimo verso delle Trachinie: «Nulla è successo che

          Zeus non volesse», o come traduce E.F. Watling: «Tutto ciò che avete visto è
          Dio».  Un  verso  che  non  indica  l’onnipotenza  di  un  Dio  giusto,  ma
          l’inspiegabilità della giustizia cosmica, ermetica, inumana e indifferente.





          Nota al testo

          I rimandi sono alla numerazione del testo in Macbeth a c. di G.K. Hunter, New
                                                     a
          Penguin Shakespeare, 1967, 26  ediz. 1987, che è il testo seguito in questa
          traduzione. Ma si è anche tenuta presente l’edizione a c. di Kenneth Muir per
          l a Arden  Shakespeare,  Methuen,  London-New  York  1982.  E  a  queste  due
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