Page 1944 - Shakespeare - Vol. 3
P. 1944

pieni  della  malinconia  dell’età  non  più  guidata  da  dei,  e  della  delusione
          dell’uomo  d’azione  che  raggiunge  i  suoi  traguardi  e  ne  vede  il  vuoto  e  il
          prezzo esoso, e coglie una delle tante facce del vero, la vita come assurdo.
          Nel tempo rapido che lo vede avviarsi per la oraziana «fallentis semita vitae»,

          Macbeth  si  rivela  in  profondo  a  se  stesso  passando  dall’illusorio  «tema
          imperiale» al tema tragico dell’assurdo, che si può rifiutare ma non infirmare.
          È  un  grande  tema  occidentale,  questo,  che  si  nutre  della  sapienza  silenica
          come del biblico «vanitas vanitatum», e dell’umano desiderio di morte come

          nostalgia della pace prenatale e unico porto e compenso fuori dalle tempeste
          della vita vuota. Delusione e derisione della vita sono parte della malinconia
          «amletica» di Macbeth, che però non dà luogo a rinuncia ma è costanza nel
          destino. Egli rifiuta lo «sciocco» suicidio dei romani (V, vi, 40-41), non vuole

          staccarsi  dalla  sua  fatalità,  e  però  si  sente  legato  al  palo  come  l’orso  che
          deve far fronte all’assalto dei cani. Tlemosyne è il termine greco per questa
          capacità di resistere.
          Soprattutto  nel  potentissimo  atto  quinto,  in  cui  arriva  al  suo  culmine  il

          momentum della tragedia per poi spezzarsi di colpo, le battute di Macbeth
          acquistano la loro massima intensità di pensieri-azioni. Del resto Shakespeare
          ha  incentrato  fin  dall’inizio  la  struttura  dinamica  dell’opera  sulle  parole
          dell’eroe,  pregnanti  a  volte  ai  limiti  dell’inesprimibile.  Il  resto  sfuma  verso

          l’incompiuto.  Retta  da  una  prospettiva  manieristica,  la  tragedia  presenta
          caratteri  a  tutto  tondo  che  portano  il  nucleo  drammatico,  mentre  altri
          s’accampano,  meno  scultorei  o  quasi  piatti,  in  primo  piano  come  alla
          periferia.  L’eroe  è  il  solitario  portatore  dei  temi  profondi,  di  contro  ad

          antagonisti senza rilievo.
          Nel Macbeth come  già  nel Riccardo III l’antiaristotelico Shakespeare inventa
          un  eroe  «cattivo»,  che  però  smentendo  Aristotele  ha  fascino  e  carisma
          tragico.  Riccardo  esercita  sugli  spettatori  una  gran  parte  di  quella  forza

          tremenda  di  persuasione  intellettuale  che  affascina  Lady  Anne;  e  nel
          criminale Macbeth c’è la forza della dea greca Peithò o della latina Suada,
          quasi che il male a un certo grado, come avvertiranno Dostoevskij e Musil,
          travalicasse  nella  sfera  del sacer.  Jago  è  un  demone  meschino,  mero

          strumento della sorte, non sa affascinare che le sue vittime. È una creatura
          del calcolo e dell’odio che, dice Lawlor, è privilegio umano sentire a prima
          vista come l’amore. Macbeth e Riccardo sono il destino stesso, veri creatori di
          male,  e  come  i  grandi  criminali  sono  al  di  là  dell’odio.  Hanno  il  potere  di

          lusinga, d’inganno, di sommovimento e di fascino della dea Persuasione, che i
          greci associavano da un lato alla madre sua Ate e alle Sirene, dall’altro alle
   1939   1940   1941   1942   1943   1944   1945   1946   1947   1948   1949