Page 1941 - Shakespeare - Vol. 3
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quasi che quei temi avessero bisogno di essere dibattuti apertamente sulla
          scena, e non fossero invece presenti perché connaturati nella visione tragica.
          Le  streghe  naturalistiche  di  Bradley  sono  solo  colore,  parte  dello  «sfondo
          tenebroso» dell’opera, o come pensava anche Hegel del contesto storico e

          della coscienza superstiziosa dell’eroe. Anzi il critico inglese dava sulla voce a
          chi, come Schlegel, Coleridge e Lamb, aveva capito la funzione cardinale del
          trascendente nella tragedia di Macbeth. Con questi autorevoli abbrivi la critica
          ha poi continuato a negar peso alle orride sorelle, che per alcuni sarebbero

          una  proiezione  della  psiche  dell’eroe,  «un  riflesso  poetico  della  sua  aspra
          volontà» (Hegel), e per altri dei meri strumenti dell’Oscuro, come le pensano
          i  personaggi  e  come  intenderebbe  l’autore.  Tutta  la  critica  tradizionale  è
          segnata da questo trasferimento all’autore e al suo messaggio dei punti di

          vista dei personaggi. La spietata oggettività della tragedia è ricondotta alla
          soggettività del dramma a tesi.
          L’opera di Shakespeare è una grande «fenomenologia» del mondo umano e
          del suo rapporto col cosmo. Forze soprannaturali operano nel suo universo, e

          gli  uomini  cercano  di  spiegarle  immettendole  nei  loro  scenari  mentali.  Ma
          l’ironico  Amleto  sa  bene  che  il  Numinoso  non  viene  esaurito  nelle  umane
          filosofie. L’occhio del drammaturgo, il quale non mette in scena alcuna verità
          su ciò che esiste oltre i limiti della mente umana, spazia sulla storia dai campi

          di  Troia  ad  Atene,  da  Roma  all’Europa  dell’era  pagana  e  cristiana,  in  ciò
          ricollegandosi all’universalismo medievale con le sue «materie» di Grecia e di
          Roma,  di  Britannia  o  d’altre  nazioni.  E  nel  suo  spaziare  segue  anche  il
          divenire  dello  scenario  divino,  che  si  fa  cristiano  e  riduce  formalmente  a

          diavoli  gli  dei  scacciati.  Ma  la  realtà  delle  cose  rappresentate  par  indicare
          invece una profonda e segreta continuità e sopravvivenza di forze divine. Nei
          drammi di ambiente medievale, Shakespeare adopera un codice misto − che
          esso sia stato nell’uso e nell’uso teatrale è aspetto che qui non si può trattare

          − nel quale vigono forze di lunga durata come il Destino e la Fortuna, ed esse
          immettono  nel  dramma  proprio  quei  motivi  che  Bradley  non  riusciva  a
          trovarvi, ma solo perché non erano nella sua ideologia.
          Aveva ragione Coleridge a vedere nell’incipit della tragedia la nota-chiave di

          tutta l’opera, che per lui s’appellava più all’immaginazione che all’intelletto. E
          voleva dire che in essa lo spazio del logos è minore di quello della aloghía. I
          critici han sempre notato la risonanza degli ossimori che aprono la tragedia −
          al di là del loro significato letterale e naturalistico − e l’hanno spiegata col

          «rovesciamento  diabolico  dei  valori»  (Knights),  col  disordine  maligno  che
          infetta l’eroe. Ma quegli ossimori annunciano il leit-motiv centrale dell’opera,
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