Page 1942 - Shakespeare - Vol. 3
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che va dal primo «brutto è bello» alla demoniaca menzogna-verità di V, v, 44.
          Il Mahood trovava nel dramma più di cento esempi di anfibologia, di discorso
          doppio, proprio quello inventato a uno scopo preciso dai tragici greci. Mi pare
          che sia uno sforzo vano − lo sostiene nel suo campo Federico Zeri − tentare

          di intendere nel profondo il linguaggio e lo stile quando non si hanno idee ben
          precise sul soggetto e il significato di un’opera. Il genio creativo non solo non
          costruisce come tutti sanno sul nulla, ma non distrugge le opere precedenti e
          non  fa  il  vuoto  attorno  a  sé.  L’idea  catastrofica  dell’arte  è  idea  romantica,

          perché l’arte non è mai fuori da un sistema tradizionale (Gombrich) ma cresce
          e si rinnova sull’arte. C’è continuità fra i tragici greci e Shakespeare che ne
          reinventa i modi e la visione, e in Shakespeare questa continuità non è che
          l’altra  faccia  della  sua  diversità  e  unicità.  Nel Macbeth  −  che  è  opera  così

          unica, così travolgente nella sua innovazione − c’è un cuore antico. Il gioco
          degli equivoci che segna il destino dell’eroe non è del diavolo né dei gesuiti e
          neanche della crisi del linguaggio, ma del paradosso della visione tragica che
          è storia antica, lenta, poco cosciente. Il fato ha deciso la rovina di Macbeth

          che tuttavia è sempre libero nelle sue decisioni. Ecco perché non convincono,
          e  non  hanno  mai  convinto  sulla  scena,  le  streghe  interiorizzate  o
          naturalizzate.  Esse  non  sono  che  streghe  nello  scenario  cristiano,  ma
          conservano, con la loro realtà oggettiva, anche la terribile, ambigua, alogica

          forza numinosa di «donne del destino»: non sono banali figure del folklore ma
          reali Destinatrici, amorali e inspiegabili come le antiche divinità. Il loro coro
          stridulo  e  tempestoso,  i  loro  riti  abnormi  e  orripilanti  annunciano  il  futuro
          come antefatto, mettono tra parentesi il mondo della distinzione e dell’etica,

          portano con sé un piano diverso dell’essere, senza logica né spazio né tempo.
          Esso  s’inserisce  nella  realtà  umana,  sicché  nel  tremendo  hurly-burly  del
          dramma  gli  uomini  non  potranno  che  «mettere  il  collo  nel  collare  della
          necessità», come dice il gran coro dell’Agamennone eschileo del suo eroe che

          vuole il proprio destino.
          Uno  dei  modi  in  cui  l’autore  tragico  rappresenta  l’Ananke  è  da  sempre  la
          convenzione dell’ironia tragica: quella che mette in bocca a Macbeth le stesse
          parole delle streghe (I, iii, 37), quella che inganna Duncan e Banquo quando,

          con «ironica» sicurezza, vedono nel castello della morte un luogo di delizie
          pregno  di  simboli  fecondi  e  augurali.  Macbeth  è  ben  poco  cosciente  della
          Necessità  in  cui  si  versa  il  suo  volere,  anche  se  sembra  capirlo  in  ultimo,
          come nella famosa metafora del povero attore che recita per poco sulla scena

          del  mondo  il  pezzo  per  lui  deciso  da  «el  autor  soberano»  (Calderón).
          Schopenhauer sorrideva del concetto «filosofico» di volontà, e Wilson Knight
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