Page 1938 - Shakespeare - Vol. 3
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allo stesso tempo il risultato di libero e servo arbitrio: la trascendenza, realtà
          visibile o invisibile ma che il drammaturgo presenta, diciamo, nei suoi effetti
          vibratori sull’apparente, trancia come un raggio cosmico la dimensione della
          libertà  senza  annullarla,  come  non  si  annullano  le  due  facce  opposte  d’un

          ossimoro. Macbeth si crea il proprio destino, e nello stesso tempo è coatto da
          un  destino  annunziato.  Simbolo  della  condizione  umana,  egli  è  «foul  and
          fair», áristos e kákistos, demoniaco e carismatico, inumano e troppo umano,
          tiranno e capro espiatorio, carnefice e vittima.

          Hegel,  per  cui  il  male  non  era  entità  metafisica  ma  parte  della  coscienza,
          vedeva − mirabilmente, a suo modo − emanare la tragedia dalla soggettività
          potente di Macbeth, dalla sua volontà selvaggia, dal suo essere totalmente e
          soltanto  se  stesso.  Egli  s’identifica  −  dopo  la  prima  crisi  e  maturazione

          amorale − con lo scopo che il suo carattere porta alla luce, ne fa il proprio
          destino  e  con  esso  si  distrugge  senza  possibilità  di  conciliazione  oggettiva,
          perché  la  sola  conciliazione  possibile  è  nella  sua  stessa  pietrosa,  infinita
          costanza, che accetta la necessità e la rende propria: «così è avvenuto» e

          basta, senza che l’autore passi alcun giudizio su di lui: «In Shakespeare non
          troviamo né giustificazione né condanna, solo un’esposizione del destino che
          mette  al  loro  inevitabile  posto  questi  eroi  che  non  si  lamentano  e  non  si
          pentono,  ma  vedono  tutto,  inclusi  se  stessi,  dal  proprio  punto  di  vista»

          (Estetica, ediz. ital. Feltrinelli, I, 771).
          Nel  saggio Hegel  on  Tragedy (1909)  A.C.  Bradley  riformula  la  definizione
          hegeliana della tragedia: «un conflitto spirituale − del bene col male ma più
          essenzialmente del bene col bene − che implica uno spreco spirituale». Le

          accezioni idealistiche tendono a diventare accezioni moralistiche, la tragedia
          diventa rappresentazione della frattura di un ordine o armonia universali, ma
          provvidenzialmente guidata sì da far prevalere alla fine l’ordine restituito, e in
          esso i valori spirituali degli individui che pur vengono sacrificati. Nel Macbeth

          il  conflitto  sarebbe  non  solo  tra  bene  e  male,  ma  anche  tra  bene  e  bene,
          perché l’eroe possiede qualità spirituali (coraggio, costanza, consapevolezza,
          rimorso)  che  riportano  al  modello  hegeliano  di  urto  tra  due  principi  in  sé
          positivi.  E  la  coloritura  moralistica  s’accentua  nelle  maggiori  letture

          postbradleiane  (Macbeth  come  parabola  sull’ambizione,  sull’orgoglio,  sulla
          tirannia, sul potere che corrompe, sul Buono e Malgoverno) che tutte mettono
          a  fuoco,  come  farà  anche  Croce  in  alcune  pagine  del  suo Ariosto,
          Shakespeare  e  Corneille  (1920),  il  dissidio  nella  coscienza  dell’eroe,  posto

          come  nelle  «moralità»  tra  Dio  e  il  Diavolo,  e  da  quest’ultimo  spinto  dalla
          sfera dei valori (impersonati, seppure «superficialmente» come nota il Croce,
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