Page 1937 - Shakespeare - Vol. 3
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PREFAZIONE







          Macbeth è da sempre considerato tra le maggiori tragedie di Shakespeare, e

          tra le meno «problematiche». Non ha mai sollevato conflitti d’interpretazione,
          ma solo qualche dubbio di genitura nei dettagli (la scena del portiere, quelle
          di  Ecate).  La  critica  maggiore,  dandone  per  scontato  il  senso  di  «parabola

          morale», di «opera sulla dannazione» (Muir), di studio del Male che corrompe
          l’eroe ma provoca la riscossa e la vittoria finale del Bene, si è esercitata in
          questo secolo sul suo linguaggio particolarmente «attivo» e di «metafisica»
          intensità, e sul protagonista che par riassumere le potenzialità di bene e di
          male  dell’uomo,  incarnando  il  pervertirsi  di  un  eroe  eccellente: corruptio

          optimi pessima. Sembrerebbe insensato non seguire il simulacro tradizionale,
          ma io credo che questo capolavoro della maturità di Shakespeare sia un test
          capitale  per  chi  avverta  la  necessità  di  sondare,  dopo  tanto  uso,  la

          consistenza dei capisaldi teorici (Aristotele, Hegel, Bradley) su cui è fondata
          l’ortodossia dominante.
          C’è  una  qualche  discordia,  a  mio  avviso,  tra  la  chiarezza,  la  perspicuità
          razionale, la «serenità» che l’opera acquista se la si vede come una storia
          umana e terrena dentro uno scenario sostanzialmente idealistico, o tanto più

          come  un  dramma  morale  cristiano,  e  la  sua  qualità awe-inspiring,  cupa  e
          suscitatrice di sgomento, che nella pratica scenica, si dice, spinge gli attori
          inglesi a evitare di pronunciarne il titolo come malaugurante, chiamandola «il

          dramma scozzese». Dopo tante letture aristotelico-hegeliane ci si sorprende a
          riscoprirvi,  dice  un  critico  inglese,  «un  senso  costante  delle  potenze
          soprannaturali  che  operano  dietro  le  azioni  umane»,  a  rendersi  conto  cioè
          che, fra le tragedie di Shakespeare, Macbeth è forse quella più pervasa dal
          soprannaturale:  non  solo  le  profezie,  e  le  apparizioni,  ma  la  tensione  e  lo

          stupore continui, il continuo interrogarsi dubbioso, il tremore e il terrore, la
          qualità  portentosa  degli  eventi  che  coinvolgono  la  natura,  quasi  il  dramma
          consistesse in un urto tra i due mondi. Queste sensazioni mi paiono cogliere il

          vero, perché il Macbeth nei suoi modi veementi mette in scena proprio quel
          rapporto  imperscrutabile  tra  i  due  mondi  che  i  tragici  greci  avevano
          rappresentato  attraverso  la  «doppia  motivazione»  dei  loro  eroi  (il  termine
          viene  dallo  studio  sull’esperienza  sacrale  di  Rudolf  Otto, Das  Heilige  del
          1936), e che i Riformatori razionalizzavano nel concetto di predestinazione. In

          realtà nell’immaginario tragico, da Eschilo a Beckett, le azioni umane sono
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