Page 2302 - Shakespeare - Vol. 2
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un  sogghigno),  è  tutta  di  Windsor.  Hanno  vinto,  e  son  loro  a  chiudere  la
          commedia,  i  mariti  e  le  mogli  borghesi  e  i  vari  Shallow,  Evans  e  monne
          Spiccie: cioè il pundonor, la bigotteria, il denaro, l’ignoranza, l’idiozia e altre
          simili «virtù» della merry England, rappresentate da quella classe che formerà

          il nerbo del Puritanesimo, e farà piazza pulita del re, della corte, del teatro e
          della  stessa  libertà.  A  leggere  in  modo  trascendente  e  storicamente
          contestuale, una fine dolceamara.
          È  un’esperienza  triste  documentarsi  sulla  critica  alle Allegre  comari:  una

          commedia amata fino al dottor Johnson per la sua «regolarità», e che all’alba
          del  gusto  romantico  incomincia  ad  essere  demolita.  Si  scopre  che  Maurice
          Morgan,  nel  suo  pionieristico  saggio  su  Falstaff  del  1777,  non  la  menziona
          neanche,  e  similmente  farà  John  Dover  Wilson  nel  suo The  Fortunes  of

          Falstaff del 1943. Ne parlano malissimo, qualcuno accusando Shakespeare di
          assassinio della sua creatura, critici come Hazlitt, Dowden, Bradley, Charlton
          e altri, più la schiera dei ripetitori di ogni nazione, sicché la sua difesa rischia
          di diventare una lotta contro le idee réçues ripetute da legioni accademiche.

          Vittima di critici illustri e meno illustri, la bella commedia si è ben difesa a
          teatro e diffondendosi in varie culture e varie arti, portata dal suo brio e dalla
          sua  vitalità:  le  sue  virtù  travolgono  le  sue  stesse  imperfezioni,  e  ce  la
          consegnano come un tutto squisitamente shakespeariano, fatto di elementi

          tradizionali e colti e di invenzione nuova, e acceso dal fuoco dell’estro comico
          e linguistico. Intanto una marea di libri, articoli e scartafacci critici ripetevano
          in  massa  il  biasimo  dei  capostipiti:  che  la  commedia  è  lavoro  scadente  di
          routine, fatto probabilmente con stanchezza per commissione, e che l’autore

          vi degrada la figura grandiosa del primo Falstaff, più opportunamente fatto
          morire nell’Enrico V.  In  ogni  caso  nelle Comari, che si dice scritta tra i due
          drammi storici, Shakespeare avrebbe risuscitato malamente un personaggio
          «che non sembra più quel d’una volta»: un Falstaff «innamorato», beffato e

          capace  di  autocritica  e  di  conati  di  pentimento  sarebbe  un  personaggio
          incredibile  e  inaccettabile.  Come  se  non  ci  fosse  amore  e  amore,  come  se
          Falstaff non fosse mai stato beffato, come se non avesse il vezzo di esprimere
          intenzioni di pentimento contrastate dalla sua «vocazione» (tanto che Poins

          lo chiamava «Monsieur Remorse»), ma soprattutto come se un drammaturgo
          fosse  obbligato  a  ripetere  senza  variazioni  un  personaggio  apparso  in  un
          lavoro  anteriore.  Spiccano  per  la  loro  non  appartenenza  alle  schiere  dei
          detrattori alcuni critici isolati (come il Chambers, Brian Vickers, lo Evans), i

          più recenti curatori del testo e altri studiosi attenti agli aspetti linguistici. Ma
          essi  non  hanno  trovato  di  meglio  per  riscattare  il  nuovo  Falstaff  che
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