Page 2301 - Shakespeare - Vol. 2
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della  critica  del  Novecento  −  è  usato  come speech-act,  come  azione
          linguistica che è anche creazione, e rivelazione del contesto immaginario, del
          carattere-destino dei personaggi e del senso del tutto. Nella seconda metà
          del  nostro  secolo  vari  critici  hanno  preso  coscienza  che  le Comari non  è

          un’opera  scritta,  come  diceva  l’ascoltatissimo  Dowden,  con  freddezza  e
          malavoglia,  ma  invece  un  lavoro  steso  quasi  tutto  in  una  prosa  mirabile,
          plasmata in vero linguaggio teatrale con altissimo senso drammatico, e un
          lavoro  in  cui  gli  effetti  farseschi  (una  delle  maggiori  accuse  dei  detrattori)

          sono  calibrati  funzionalmente,  necessaria  espressione  di  un  mondo  sentito
          come una torre di Babele. Ogni personaggio vive e agisce nel suo linguaggio,
          si realizza in ciò che dice, in un parlato vivo e ribollente di succhi idiomatici,
          evasivo  delle  norme  della  grammatica  e  del  decoro.  Come  altri

          commediografi  maggiori,  Shakespeare  drammatizza  la  caratteristica  del
          linguaggio  parlato  di  essere  una  mistura  di  «lingua»  e  di  «parola»,  di
          attuazione normativa e di intervento soggettivo, di raffinata figurazione e di
          impulsiva  espressività;  un  linguaggio  spesso  scorretto,  approssimativo  o

          innovativo,  variante  di  continuo  e  farcito  di  elementi  affettivi,  quasi  una
          continua  forzatura  e  violazione  della  norma,  una  continua  «storpiatura»,
          ricerca  e  creazione.  Un  linguaggio  d’uso  e  d’azione,  che  fuori  dall’originale
          rende difficile la fruizione e l’esperienza dell’opera, e ardua la traduzione in

          altre lingue. Ciò è causa non ultima, fuori dell’area inglese ma anche dentro
          di essa, dei malintesi nell’apprezzamento del lavoro, che viene ridotto spesso
          alla  sua  sola  azione  esterna  e  agli  effetti  farseschi.  La  stessa  statura  di
          Falstaff, più alto degli altri di parecchie spanne, non viene espressa tanto dai

          suoi atti che sono di volgare imbroglione, quanto nella ricchezza ed efficacia
          del  suo  linguaggio,  anzi  è  in  gran  parte  quest’ultimo  che  lo  intitola  al  suo
          ruolo di protagonista. E il suo linguaggio non è solo di parole ma anche di
          gesti, e della sua spropositata apparenza, e del suo spiccare fisicamente nella

          situazione  scenica.  Soprattutto  nell’atto  finale,  nel  grande  evento  festivo  e
          sacrificale  del  bosco  di  Windsor,  dove  i  nodi  dell’intreccio  vengono  sciolti,
          dove un approccio naturalistico e una ricerca di coerenza logico-psicologica è
          fuori luogo come in una commedia di Aristofane, dove l’autore dà prova della

          sua capacità di fusione e riesce ad infilare tra i suoi affollati motivi anche le
          lodi  del  committente  e  della  Giarrettiera  (in  maniera  aristofanesca,  con
          stravaganze che sono parte della tradizione), in mezzo a tutto questo Falstaff
          parla  sempre  di  meno  e  verso  la  fine  resta  quasi  muto:  egli  è  stracco  e

          depresso, vinto e simbolicamente fatto fuori, si manifesta e agisce con la sua
          sola imponente presenza. La vittoria, implica il commediografo (diciamo con
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