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libretto di Boito e nella musica di Verdi) vien decurtata di una buona metà dei
          suoi significati. Non è una commedia «d’amore» incentrata su un simpatico
          mascalzone, ma una commedia complessa in cui lo humour è strumento di
          conoscenza, una commedia d’azione dalla struttura ad affioramenti alternati e

          speculari, tutta un susseguirsi di vicende impreviste, intrighi, imbrogli, beffe e
          controbeffe, una commedia della superficie increspata della vita che lascia in
          bocca un sapore piccante con più di un pizzico di angostura, idealmente vicina
          anzitutto a Jonson e a Machiavelli. Falstaff perderebbe tutto il suo fascino in

          un mondo positivo, perché i valori rabelaisiani che egli porta in sé si reggono
          sulla  sua  opposizione  ad  un  mondo  degradato.  Il  giudizio  moralistico  della
          critica  anglosassone,  che  vede  nel  lavoro  l’allegra  celebrazione  delle  salde
          virtù delle comari, la giusta punizione del libertino intruso nel mondo dorato

          della  gaia  Inghilterra,  e  la  finale  esaltazione  della  fiducia  coniugale,  del
          matrimonio,  della  famiglia,  assieme  a  quella  della  monarchia  e  dell’Ordine
          della Giarrettiera che in Windsor aveva sede, tutta codesta visione in rosa va
          certamente  corretta,  e  occorre  capire  che  il  commediografo  astuto  coglie

          nella  vita  di  Windsor  la  negatività  etica,  il  ridicolo,  l’ipocrisia  e  la  follia.
          Ripeto, proprio in quella visione lucida è la radice, nei drammi storici come in
          questa  commedia  esilarante  ed  ambigua,  della  statura  di  Falstaff  come
          antieroe  comico.  Il  suo  fascino  non  è  dovuto  soltanto  alla  sua  pagana  e

          animalesca  vitalità.  Nella  brigata  di  Windsor  egli  è  l’unico  che  sappia
          veramente pensare, ed avrebbe potuto scegliere per il suo blasone il motto
          della  rabelaisiana  Abbazia  di  Thélème:  «Fais  ce  que  tu  veuls»,  perché  il
          vecchio aristocratico libertino è in qualche modo portatore dell’individualismo

          anarchico e ribelle del Rinascimento, epoca drammatica e contraddittoria. Col
          suo  schietto  e  colto  immoralismo,  e  la  sua  capacità  da  grande  attore  di
          vedere le cose da punti di vista diversi, e reso più simpatico dalla sua stessa
          debolezza  e  situazione  di  perdente,  Falstaff  si  erge  contro  il  moralismo

          ipocrita e cretino, l’ottimismo ridanciano e spietato di tutti gli altri.
          Le Allegre comari è anche commedia che come le altre di Shakespeare è una
          «gran  festa  del  linguaggio»,  o  come  dice  lo  Elam  «una  commedia  delle
          avventure  e  delle  disavventure  del  vernacolo».  Nella  seconda  metà  del

          Cinquecento  inglese  gli  uomini  di  lettere  provavano  un  forte  interesse  per
          l’arte  del  linguaggio  e  le  potenzialità  del  loro  vernacolo  come  strumento
          potente di persuasione e di modificazione della realtà, e con accenti che nel
          Sidney  e  nel  teatro,  nelle  opere  di  Shakespeare  e  di  altri,  sembrano

          richiamare gli antichi entusiasmi di un Gorgia da Leontini. Nelle commedie di
          Shakespeare il linguaggio − e questa sì è un’indagine nuova, che va ad onore
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