Page 2299 - Shakespeare - Vol. 2
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sveglia il loro fanatismo ed esige una vendetta lunga, beffarda e crudele. Il
          povero e illuso cavaliere non sa davvero in quale pasticcio si sia cacciato. Ché
          la commedia, per aggiungere una definizione di Hibbard alle tante altre che
          se ne son date, può anche dirsi una «commedia di vendetta».

          Altri esponenti del mondo di Windsor, residenti o ospiti dal Gloucestershire,
          sono i protagonisti dei discorsi bislacchi della scena iniziale che danno il la
          alla  parte  corale  dell’opera:  anzitutto  il  giudice  Shallow,  che  è  il  secondo
          vecchione  della  commedia,  un  uomo  tanto  pienamente,  costituzionalmente

          comico  (e  sicuro  e  protetto  da  tale  qualifica)  quanto  Falstaff  è  insicuro  e
          vulnerabile.  Shallow,  già  stupidamente  sereno,  sbruffone  e  millantatore
          nell’Enrico IV, e qui altrettanto vuoto, vanesio e pedante, fa coppia col suo
          ritardato  nipote  Slender;  e  ad  essi  si  aggiungono,  a  colorire  lo  sfondo  di

          farsesco  realismo,  il  prete  gallese  don  Ugo  murato  nel  suo  infantilismo
          puritanesco  (e  nel  suo  inglese  storpiato),  il  medico  francese  Caio  (in
          Shakespeare i francesi son quasi sempre i nemici storici da sfottere appena
          possibile), e il furbo, gioviale, sventato e beffabile oste locale; e sulla truppa

          dei  servitori  domina  la  governante  vissuta  monna  Spiccia,  donna  venale  e
          pronta  a  tutti  i  servigi,  stupida,  donnescamente  astuta  e  moralmente
          malfamata,  che  unisce  in  sé  tratti  comici,  grotteschi  e  sinistri:  una  figura
          davvero machiavellica. Questo è il mondo di Windsor: una bella brigata per

          celebrare la merry England!
          In verità, il comico tentativo di Falstaff non minaccia un mondo positivo ed
          idilliaco,  ma  una  sfera  dominata,  sotto  la  vernice  delle  buone  abitudini
          campagnole, dagli stessi falsi valori dell’egoismo e del possesso, del raggiro e

          dell’aggressività  che  reggevano  il  mondo  dell’Enrico IV.  L’aver  trascurato
          questo  senso  dell’opera  è  miopia  tipica  della  critica  romantica  e
          postromantica. E va citato, pur con le sue deferenze alle mode del tempo, il
          saggio di Jane A. Roberts (1979) come un esempio di quelle rare letture che

          san cogliere l’interesse dello Shakespeare maturo per i significati sociali della
          realtà  inglese,  e  senza  l’atteggiamento  di  piaggeria  sciovinistica  che  è
          presente  in  certe  sue  opere  d’apprendistato  e  anche  di  postapprendistato
          (come l’Enrico VI  e  l’Enrico V).  Secondo  la  Roberts  la  commedia  accentua  i

          falsi valori sociali di Windsor, unita contro colui che minaccia sessualmente il
          suo ordine; Falstaff è associato dalla studiosa ad altri «capri espiatori» come
          Shylock e Malvolio; qui le forze sociali avrebbero messo a fuoco la loro ostilità
          contro  un  bersaglio  debole,  e  dopo  aver  scaricato  su  di  esso  la  loro  forza

          tornerebbero a placarsi in una quieta normalità. Certo le Allegre comari, letta
          soltanto come commedia dell’amor venale di Falstaff (come avviene nel bel
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