Page 2287 - Shakespeare - Vol. 2
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congiurati,  di non voler  leggere  il  testamento,  di non voler  scatenare  il  popolo,  di non essere  un
                 bravo  oratore  e  quindi  di non saper  parlare  se  non  in  maniera  rozza  e  inadeguata.  Ogni  sua
                 negazione è volta ad ottenere l’effetto opposto e a dimostrare la straordinaria abilità della sua parola
                 (di cui egli ha certamente una sorta di godimento estetico, se non di compiacimento narcisistico).
            124 III,  ii,  253-254  Come  già  aveva  fatto  Cassio  in I,  ii,  quando  era  rimasto  solo  dopo  la  seduzione
                 politica  di  Bruto,  così  ora  Antonio,  dopo  aver  sedotto  a  sua  volta  politicamente  il  popolo  e  averlo
                 condotto  ad  una  inarrestabile  violenza,  sembra  meditare  sull’effetto  delle  sue  parole  come  da  un
                 punto  di  osservazione  esterno,  e  anche,  pare,  con  un  segreto  compiacimento  da  machiavellico.
                 Ora, dice Antonio, venga pure quello che le sue parole hanno suscitato; e quello è il Mischief, parola
                 dal  complesso  spettro  semantico  in  Shakespeare,  potendo  significare  ‘male’,  ‘calamità’,  ‘misfatto’,
                 ‘malvagità’,  ‘malattia’.  A  mio  parere,  qui  prevale  il  senso  di  ‘male’,  anche  perché  secondo  tale
                 valenza si presentava la forma aggettivale del lemma, mischievous, in conclusione del soliloquio di
                 Bruto  in  apertura  di II,  i  («e  perciò  pensiamolo  come  uovo  di  serpente,  che,  covato,  diverrebbe
                 malefico,  come  da  sua  natura,  e  uccidiamolo  nel  guscio»).  Quel  ‘male’  sarà  la  guerra  civile,  che
                 Antonio  stesso  aveva  profetizzato  in III, i, 254-275. Attore della storia, come lo è Cassio, anche
                 Antonio in questa breve battuta si ferma a guardare alla propria operazione sulla storia. L’uomo di
                 parte consegue il suo scopo e, a quel punto, si isola per un momento a considerarne gli effetti. Dal
                 punto di vista del personaggio, si può intravedere in ciò un godimento narcisistico della propria azione
                 (si  noti,  sotto,  ai  vv.  259-260  e  263-264,  come  Antonio  sia  orgoglioso  della  propria  abilità  e  del
                 proprio  successo).  Ma  sul  piano  della  struttura  drammatica  e  del  disegno  semantico  generale
                 dell’opera,  questo  soliloquio  −  come  in I,  ii  quello  di  Cassio  −  sembra  indicare  che  Shakespeare
                 intende  prendere  le  distanze  sia  nei  confronti  della  congiura  repubblicana  che,  ora,  del  rinnovato
                 cesarismo. Il suo è un dramma politico, non ideologico, e in quanto tale non può offrire messaggi.
                 Anche perché il male è dovunque nella storia, e può trovarsi in qualsiasi parte politica. I personaggi
                 del dramma sono artefici di mosse e contromosse, ma sono anche pedine di una partita che non
                 possono controllare fino in fondo.

            125 III, iii Shakespeare non inserisce questa scena secondo la funzione che l’episodio ha in Plutarco, e
                 cioè quella di convincere Bruto e Cassio a lasciare Roma in tutta fretta. Come ha riferito ad Antonio il
                 servo di Ottaviano alla fine della scena precedente, i due capi repubblicani sono già fuggiti da Roma.
                 Questa scena, pertanto, serve soprattutto a mostrare i tragici arbitrî della guerra civile scatenata, di
                 cui la prima vittima è la figura indifesa di un poeta, linciato dalla folla per omonimia.

            126 ATTO IV Questo quarto atto, come già il secondo, è strutturato in scene parallele che rispecchiano i
                 due fronti contrapposti: la prima presenta, in casa di Antonio, le decisioni politico-militari dei triumviri;
                 la  seconda  i  dissidi  etico-politici  di  Bruto  e  Cassio  e  i  loro  preparativi  militari,  in  un  accampamento
                 presso  Sardi,  in  Asia  Minore.  Ma,  a  differenza  del  secondo  atto,  dove  il  serrato  parallelismo  delle
                 scene si svolgeva in una circoscritta unità di tempo (la notte e il mattino delle Idi di marzo), qui la
                 costruzione parallelistica non implica una unità temporale. Nel tempo storico reale, la prima scena ha
                 luogo  più  di  un  anno  dopo  gli  eventi  del  terzo  atto,  nel  novembre  del  43  a.C.,  in  quanto  il
                 drammaturgo omette la guerra tra Ottaviano e Antonio nonché le varie avventure di Bruto in Grecia
                 e le campagne militari di Bruto e Cassio dalla Grecia all’Asia Minore; e la seconda scena si svolge
                 nell’estate  del  42,  a  ridosso  della  battaglia  di  Filippi.  Il  tempo  drammatico  non  si  cura  del  tempo
                 storico  reale,  che  comprime  o  dilata  secondo  le  proprie  esigenze  di  rappresentazione.  E  tuttavia
                 anche il tempo drammatico lascia qui emergere lo sfasamento di date tra le due scene parallele,
                 perché, se nella prima Antonio e Ottaviano si trovano a Roma, nella seconda risulta che essi stanno
                 ora puntando su Filippi con un potente esercito per ingaggiare la battaglia decisiva con i repubblicani.
                 Dopo la morte di Cesare, e lo spostamento del popolo prima dalla parte dei repubblicani e poi dalla
                 parte degli eredi politici di Cesare, Shakespeare comprime vertiginosamente fatti e tempi storici, per
                 tornare  poi  ad  una  relativa  unità  di  tempo  nella  drammatizzazione  dei  preparativi  militari  e  della
                 battaglia di Filippi nel quinto atto.
            127 IV, i, 1-6 È la compilazione delle liste di proscrizione, il primo atto comune dei triumviri dopo gli intrighi
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