Page 2284 - Shakespeare - Vol. 2
P. 2284

99 III, i, 204 Antonio rievoca con la sua immaginazione ed emozione la scena dell’uccisione di Cesare,
                 e ne trasforma metaforicamente le valenze volute dai congiurati: Cesare è caduto come un cervo,
                 simbolo della mitezza, non come un leone, simbolo della potenza e della regalità; è caduto come
                 Giulio, e non come Cesare, braccato da feroci cacciatori e da cani urlanti (bayed).
            100 III, i, 207-208 Gioco di parole fra hart (cervo) e heart (cuore): Cesare era il cervo mansueto di un
                 mondo che gli si è fatto foresta intorno, e di quel mondo era il cuore. Antonio batte e ribatte sul
                 cuore di Cesare, un cuore grande e incompreso; mentre Bruto l’aveva visto − secondo le tipiche
                 corrispondenze classiche e rinascimentali tra corpo umano e corpo politico − come testa (cfr.  II, i,
                 vv. 164 e 184), capo, e quindi re.
            101 III, i, 209 Questa volta Antonio si è spinto ancor più avanti nel rischio, e solo ora, con la lusinga
                 finale dell’appellativo princes (clamorosamente iperbolico) riferito ai congiurati, mitiga in qualche modo
                 l’accusa.  Ma  evidentemente  non  basta,  perché  Cassio  lo  interrompe  con  un  tono  che  non  può
                 essere se non di monito o di minaccia. E Antonio chiederà perdono per essersi lasciato trascinare a
                 tal punto dalla propria emozione. È solo simulazione la sua? Sembra, piuttosto, qui come nella scena
                 successiva, la capacità del grande attore, e del grande oratore, di fare la parte ma anche di viverla,
                 di usare l’emozione e nello stesso tempo di provarla.

            102 III, i, 227 Si noti quanto sia abile Antonio nel far passare il suo vero, e segreto, progetto, quello di
                 scatenare il popolo tenendo l’orazione funebre sul corpo di Cesare, come una richiesta marginale, in
                 sovrappiù (moreover).
            103 III,  i,  244-251  Non  accettando  neanche  questa  volta  il  giustissimo  consiglio  di  Cassio,  Bruto
                 acconsente alla richiesta di Antonio, credendosi sicuro nel porgli dei precisi limiti: non dovrà parlare
                 male dei congiurati, dovrà dire che lo fa con il loro permesso, dovrà tenere la sua orazione dopo
                 quella di Bruto e dallo stesso rostro. Ma saranno proprio quei limiti a creare il capolavoro oratorio di
                 Antonio: egli li rispetterà tutti, ma li volgerà a suo vantaggio.
            104 III, i, 254 sgg. Ora  che  è  solo  con  il  corpo  di  Cesare,  Antonio  non  ha  più  bisogno  di  giocare  col
                 linguaggio. Non deve più recitare. E mostra come la sua commozione sia autentica. Prima vede la
                 riduzione mortale della grandezza di Cesare (thou bleeding piece of earth),  poi,  secondo  un  asse
                 metaforico  opposto,  amplifica  al  massimo  quelle  spoglie,  vedendo  Cesare  come  una  sorta  di
                 enorme  reperto  archeologico  (Thou  art  the  ruins).  Quindi  passa  all’invettiva,  alla  maledizione,  e
                 infine alla profezia. Per Antonio, lo spirito di Cesare non è morto e chiama alla vendetta con voce di
                 re (with a monarch’s voice), quale egli era, anche se non ancora proclamato. E tocca a lui farsene
                 portavoce (vv. 260-261). Questa è, nell’intero dramma, la parte di Antonio, anche se alla fine si
                 potrà intravvedere come l’eredità di Cesare sarà raccolta da Ottaviano e non da lui.
            105 III, ii, 12 sgg. In questa orazione, e nella successiva di Antonio, si gioca il destino di Roma; e non a
                 caso esse sono collocate dal drammaturgo al centro dell’opera. Seguendo Plutarco, egli fa parlare
                 Bruto secondo l’asciutto stile attico e Antonio secondo il dovizioso stile asiatico. Ma l’articolazione e i
                 contenuti delle due orazioni costituiscono una grande invenzione rispetto alla fonte, e rappresentano
                 due fra i più alti esempi letterari di retorica della politica.  L’orazione  di  Bruto  inizia  con  un  invito  al
                 silenzio che duri fino alla conclusione: egli spiegherà le ragioni della eliminazione di Cesare e la folla
                 giudicherà. Fin dall’inizio il suo atteggiamento è opposto a quello di Antonio, che si farà interrompere
                 spesso  e  ad  arte,  portando  la  folla  a  credersi  protagonista  dell’evento  locutivo  (ed  emotivo  e
                 politico).  E  si  noti  che  il  discorso  è  in  prosa,  malgrado  l’importanza  del  personaggio  (i  grandi  in
                 Shakespeare parlano quasi sempre in versi) e l’importanza dell’occasione. Ma la prosa è il veicolo
                 dell’argomentazione logica, del discorso dimostrativo, e il discorso di Bruto è in effetti una sorta di
                 teorema,  logico  ma  anche  tautologico,  breve  ma  anche  ridondante.  Un  discorso  strutturato  con
                 ampia  consapevolezza  retorica,  e  tuttavia  privo  del  movimento  e  della  passione  che
                 caratterizzeranno quello di Antonio.
            106 III, ii, 13-17 Bruto esordisce con una serie di figure circolari dalla precisa progressione semantica e
   2279   2280   2281   2282   2283   2284   2285   2286   2287   2288   2289