Page 2291 - Shakespeare - Vol. 2
P. 2291

157 V, i, 40-45 La scena dell’assassinio di Cesare è rivissuta con grande intensità, nonché con precisione
                 di particolari. Tant’è che viene da chiedersi se non ci sia una incongruenza. Si ricorderà che Antonio
                 era stato portato fuori dal Campidoglio da Trebonio, in modo che non potesse intervenire in aiuto di
                 Cesare. Da quanto dice qui, sembra invece che abbia visto tutto. E, all’accusa di falsità che gli è
                 stata rivolta, replica addebitando la più grande falsità proprio ai congiurati nella loro messa in scena
                 che ha condotto all’uccisione di Cesare.
            158 V, i, 46-48 Cassio rinfaccia a Bruto il suo più grande errore, quello di non aver accettato che Antonio
                 venisse eliminato insieme a Cesare.
            159 V, i, 54 E cioè lui stesso, sempre più chiaramente il nuovo Cesare.

            160 V, i, 72-89 Il Cosmo Simbolico manda segni, e i laici repubblicani cominciano ad ascoltarli. Prima era
                 apparso  il  fantasma  di  Cesare  a  Bruto,  e  nessun  altro  lo  aveva  visto.  Ora  Cassio,  l’uomo  che
                 secondo la dottrina di Epicuro non aveva mai dato credito alle trame di un disegno trascendente,
                 manifesta le sue paure, alimentate dalla lettura simbolica di eventi come quello delle aquile (emblemi
                 del potere, spesso addirittura regale) che hanno prima protetto e poi abbandonato l’esercito. Ma
                 segni negativi Cassio li trova anche in un più segreto e privato registro. Qui − come poi in V, iii, 23-
                 25  −  egli  vede  nella  ricorrenza  del  proprio  compleanno  il  segnale  della  propria  fine,  perché  tutto
                 torna circolarmente nella visione simbolica del mondo. Ci stiamo avvicinando alla battaglia decisiva, e
                 Cassio sa  già  che  perderà.  Cerca  il  conforto  della  mano  di  Messala,  ribadisce  che  non  era  sua
                 volontà  giocarsi  tutto  in  una  sola  battaglia,  e  quindi  si  abbandona  ai  presagi  che  culminano  nella
                 visione  dell’esercito  repubblicano  raffigurato  come  un  moribondo  che  sta  per  render  l’anima.  Gli
                 uomini  che  avevano  combattuto  contro  la  tirannia,  la  verticalità  simbolica,  la  cerimonia,  la
                 superstizione, vengono ricatturati, alla fine, in quello stesso paradigma.
            161 V, i, 101-103 La filosofia stoica considerava il suicidio un atto da codardi. Ma, lo vedremo, Bruto si
                 suiciderà, così come farà, prima di lui, Cassio.
            162 V,  i,  116-122  È  l’addio  della  morte,  scandito  da  ripetizioni  rituali.  Gli  uomini  “nuovi”,  nel  momento
                 decisivo in cui devono affrontare lo spirito di Cesare affidato al campo avverso (perché contro quel
                 fantasma si battono più che contro Antonio e Ottaviano), recitano di nuovo quella cerimonia della
                 morte che avevano interpretato subito dopo l’uccisione di Cesare.

            163 V,  iii,  5-8  Ingaggiata  la  battaglia  troppo  precipitosamente  da  Bruto,  è  successo  che  questi  ha
                 sfondato, sulla sua ala sinistra, le linee di Ottaviano il quale, come ha preteso, ha condotto il suo
                 esercito sulla destra, mentre l’ala destra di Cassio è stata sconfitta e circondata dall’ala sinistra di
                 Antonio.
            164 V, iii, 23-25 Ecco la conferma di quel destino simbolico che Cassio aveva già evocato in V, i. Prima
                 ancora di sentire da Pindaro che cosa sta succedendo nella pianura e se le truppe che avanzano
                 sono amiche o nemiche, Cassio ripete ossessivamente questa sua idea, che il tempo abbia ormai
                 compiuto  il  suo  corso,  che  la  sua  vita  sta  chiudendo  il  suo  cerchio  lì  dove  era  cominciata.  Si
                 autocondanna prima ancora che intervenga il messaggio sbagliato di Pindaro.
            165 V,  iii,  28-32  Anche  qui  Shakespeare  segue  fedelmente  il  racconto  di  Plutarco,  ma  introduce  una
                 variante significativa che consente la battuta fatalistica di Cassio che si è appena commentata: non
                 è Cassio in persona a guardare, con la sua vista difettosa, cosa sta avvenendo giù nella pianura,
                 ma  è  Pindaro  ad  osservare  la  scena  per  lui,  verosimilmente  salendo  sulla  balconata  dello upper
                 stage elisabettiano. È un bell’effetto drammatico, con una descrizione di un’azione di guerra che si
                 svolge poco più lontano, in contemporanea. E sia in Plutarco che in Shakespeare quella azione viene
                 male  interpretata  da  chi  la  osserva:  in  effetti,  Titinio  è  circondato  e  festeggiato  dalla  cavalleria  di
                 Bruto,  che  sta  vincendo  la  sua  battaglia,  ma  l’evento  è  inteso  in  senso  opposto,  per  cui  Titinio
                 sarebbe  circondato  e  catturato  dai  nemici.  È  l’ultima,  e  fatale,  interpretazione  errata  di  questo
                 dramma in cui così fitto è il paradigma ermeneutico riguardante i segni, i prodigi, i sogni, i volti delle
                 persone, nonché il senso stesso delle parole (al riguardo, si veda la Prefazione).
   2286   2287   2288   2289   2290   2291   2292   2293   2294   2295   2296