Page 2038 - Shakespeare - Vol. 2
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So che hai in te tale virtù, Bruto,
               così come conosco il tuo aspetto esteriore.
               Bene, l’onore è il soggetto della mia storia.             26
               Non so dire che cosa tu e gli altri

               pensiate di questa vita; ma, quanto a me,
               preferirei non vivere piuttosto che stare
               in soggezione di un essere che è pari a me stesso.
               Io nacqui libero come Cesare, e così tu;

               tutti e due ci siamo nutriti come lui, e tutti e due
               possiamo sopportare il freddo dell’inverno come lui.
               Una volta, infatti, in un giorno rigido e tempestoso,
               con il Tevere agitato che infuriava contro le sue rive,

               Cesare mi disse: “Oseresti, Cassio, gettarti ora
               con me in questa rabbiosa corrente,
               e nuotare fino a quel punto?”. A quelle parole,
               vestito com’ero, io mi tuffai

               e l’invitai a seguirmi; e lui lo fece.
               Il fiume ruggiva, e noi lo percuotevamo
               con muscoli vigorosi, aprendocelo davanti
               e affrontandolo con cuore pieno di sfida.

               Ma prima che potessimo raggiungere il punto indicato,
               Cesare gridò: “Aiutami, Cassio, o affondo!”.
               Io, come Enea, il nostro grande antenato,
               che dalle fiamme di Troia si portò sulle spalle

               il vecchio Anchise, dalle onde del Tevere
               trassi fuori lo stanco Cesare.         27   E quest’uomo
               è ora diventato un dio, e Cassio
               è una misera creatura e deve curvare la schiena,

               solo che Cesare svagatamente gli faccia un cenno.
               Ebbe una febbre quando era in Spagna,
               e quando gli saliva forte, io osservavo
               come egli tremava. È così, questo dio tremava!

               Le sue labbra codarde disertavano il loro colore,                28
               e quello stesso occhio il cui sguardo atterrisce il mondo
               perdeva il suo lustro. L’ho udito gemere,
               sì, e quella lingua, che comandava ai romani

               di fargli attenzione e di scrivere in libri i suoi discorsi,
               ahimè, gridava “Dammi da bere, Titinio”,
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