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il debutto di Donald Pleasence nel ruolo di uno dei Dromi; Bristol, 1953,
regia di Donald Carey; Stratford, 1962, regia di Clifford Williams, con Alec
McCowen, Ian Richardson e Diana Rigg: un successo, quest’ultimo,
confermato da lunghissime tournées negli Stati Uniti, in Scandinavia, in
Russia e nei paesi dell’Est), si moltiplicano le riletture più o meno felici e
carnevalesche: a esempio l’accennata contaminazione wellesiana e un
musical di Rodgers e Hart, The Boys from Syracuse, che nel 1938, dopo la
preview a Boston, raggiunge le 235 repliche all’Alvin Theatre di New York
(il libretto di George Abbott utilizza un solo verso di Shakespeare, quello
finale; ma ne segue sostanzialmente la “trama”, gonfiando per altro la
parte della serva Luce che qui diventa moglie di Dromio di Efeso; ne viene
tratto anche un film due anni dopo per la Universal dal regista Edward
Sutherland, con Allan Jones e Martha Raye, presentato in Italia nel
dopoguerra, per sfruttare il successo di un famoso film nonsensical di H.C.
Potter, come Hellzapoppin in Grecia). Seguono via via varie edizioni in Gran
Bretagna e in America (il recente volume curato da Anthony Davies e
Stanley Wells, Shakespeare and the moving image: The Plays on film and
television, Cambridge 1994, elenca sette diverse versioni disponibili in
video) fino a quelle, per ora ultime, della Royal Shakespeare Company nel
1987 (regia di Nick Hamm, musiche di Colin Sells) e del Lincoln Center di
New York nello stesso anno (regia di Gregory Mosher e Robert Woodruff).

Su questo piano, il risultato più felice è probabilmente la festosa versione
di Trevor Nunn a Stratford nel 1976, poi trasferita all’Aldwych di Londra e,
fortunatamente, su videocassetta. In un paesucolo del Mediterraneo, tutto
muri calcinati e stracci multicolori, il Duca Solino, occhiali da sole e
uniforme militare, cerca di emanare condanne a morte a destra e a sinistra
ma nessuno gli presta molta attenzione, e per le strade si aggirano, fra
turisti, tavernieri, prostitute, ladruncoli, e preti ortodossi che ballano il
sirtaki, un dolorante Egeone e un perplesso Antifolo di Siracusa munito di
guida Michelin, accanto a un orafo vistosamente gay e a un Secondo
Mercante mafioso o magliaro arricchito. È uno spettacolo tutt’altro che
facile o corrivo, anche se le musiche (Guy Wolfenden), inizialmente
modellate sul Kurt Weill di Mahagonny, scivolano nella rock opera e
addirittura, nelle scene dedicate all’esorcista Pinch, in vere e proprie
strizzatine al Rocky Horror Picture Show; il gioco dei doppi raggiunge effetti
ambigui e inquietanti, specie per quanto riguarda un doppio in certo senso
non previsto: l’ironica Adriana di Judi Dench e la Luciana zitellesca, inibita
e lettrice accanita di Francesca Annis. Pure, proprio questi risvolti appena
suggeriti fanno pensare, ancora una volta, che il testo - da sempre
definito, anche da chi non lo ritiene fra le maggiori opere shakespeariane,
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