Page 623 - Galileo Galilei - Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo
P. 623
necessariamente brevi. In primo luogo, è chiaro che l’atteggiamento epistemologico di
Galileo nel caso dell’astronomia, specialmente in difesa delle sue scoperte telescopiche,
è assai vicino a quello che più volte contesta all’aristotelico, cioè un empirismo ingenuo
senza la minima elaborazione. Galileo evita sempre la discussione nell’ambito della
teoria ottica ma, come risulta evidente dal Sidereus nuncius, si limita a rivendicare, ora
qua ora là, che il telescopio, amplificatore dell’esperienza, mostra ciò che i suoi
contestatori si ostinano a negare, per esempio l’esistenza dei satelliti di Giove. I fatti
sono l’unica cosa rilevante, e qui non sembra necessario far ricorso all’«occhio della
mente». Tuttavia, nell’ambito della fisica o della cosmologia, ancorché mai in maniera
sistematica, Galileo sviluppa queste problematiche epistemologiche con notevole
accuratezza e maggior sottigliezza, come dimostrano il passo al quale alludiamo circa la
determinazione della traiettoria della pietra che cada dalla torre e altri passi simili, come
quelli – un po’ sopra e un po’ dopo il presente passo – in cui egli esprime la sua
ammirazione per Aristarco e Copernico in quanto capaci di sottomettere ciò che
manifestamente mostrava loro l’esperienza sensibile a quel che dettava la ragione.
Galileo afferma chiaramente che, di fronte alla credenza degli aristotelici, l’esperienza
di per sé non solo non ci insegna come sono le cose, ma anzi può trarci in inganno.
«Vedere» non è ancora «comprendere»: per comprendere manca una teoria. Più ancora,
per vedere bisogna comprendere. Naturalmente, è facile cadere in equivoco, cioè
difendere una teoria erronea in base alla quale i fatti si strutturino erroneamente.
L’errore però non consisterà nella visione o esperienza sensibile, bensì nella teoria
dell’osservatore. Come infatti dice Galileo, solo la teoria è vera o falsa, «non sendo
possibile che una sensata esperienza sia contraria al vero» (Lettera a Fortunio Liceti del
15 settembre 1640; Opere, XVIII, p. 249). Qui ad avere la priorità è senz’altro la teoria.
La differenza tra questi due atteggiamenti può spiegarsi, almeno in parte, con il fatto che
in campo astronomico Galileo presentava fatti nuovi – l’aspetto di globo terracqueo
della Terra, i satelliti gioviani, le fasi di Venere – che, se accettati appunto come fatti
concreti, di per sé costituivano una critica all’astronomia e cosmologia tradizionale,
oltre a favorire la nuova astronomia e cosmologia. Questo, mentre nell’ambito della
fisica Galileo non presenta fatti nuovi, ma si trova nella necessità di insegnare ai suoi
contestatori a rendersi conto che gli stessi fatti di sempre – la caduta di una pietra
dall’alto di una torre o dall’albero di una nave – non costituiscono di per sé una prova
della vecchia fisica e cosmologia e che possono venire integrati senza contraddizione
della nuova fisica e cosmologia. Si tratta di rieducare, di «rifar i cervelli degli uomini»,
come dice Galileo stesso. Per uno sviluppo un po’ più ampio di quest’ultimo punto, mi
permetto di rimandare ad A. Beltrán, 1983, pp. 111 ss., specialmente 125-136. Ragione
onde avvenga che Venere e Marte non ci appariscano variar grandezza quanto
conviene.
56 Infatti, nell’una come nell’altra opera Galileo tratta i temi ai quali qui accenna. Il testo
delle Lettere è reperibile in Opere, V, pp. 196-197, mentre quello del Saggiatore, che
corrisponde al paragrafo 49 di questo, si trova in Opere, VI, pp. 273 ss.
57 Galileo si riferisce a Sirio che effettivamente è la più luminosa di tutte le stelle e si
trova nella costellazione del Cane Maggiore.
58
Qui Galileo si riferisce al famoso testo della lettera dedicatoria a papa Paolo III
623