Page 2948 - Shakespeare - Vol. 3
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PREFAZIONE







                                                                                            a Luigi Squarzina




          Ultima prova di Shakespeare nel genere tragico, il Timone d’Atene (che si può
          assegnare agli anni tra il 1606 e il 1608) è anche il momento più impietoso
          della  sua  riflessione  intorno  alla  grande  crisi  ideologica  e  sociale  che  tra
          Cinquecento  e  Seicento  accompagna  la  nascita,  in  Inghilterra,  dell’uomo
          moderno. Più ancora che nel Re Lear (con cui pure ha non pochi raccordi), o

          nell’Otello (cui è legato da esplicite e segrete affinità), e più ancora che in
          drammi pressoché contemporanei, quali Antonio e Cleopatra  e Coriolano, la
          realtà  che  prende  qui  forma  scenica  è  una  realtà  negativa,  un  deserto

          dell’anima e del cuore dove solo domina, immobile e inattaccabile mostro, il
          dio  dell’oro  (così  come  dominava  nella  Venezia  del Volpone di Ben Jonson,
          del 1605, al quale certo Shakespeare guardava). Una realtà, poi, dove la fine
          di Timone non è mitigata da un Edgar che, incarnando un mondo nuovo, in
          qualche misura riscatti la caduta dell’ordine antico; e dove non c’è un Malcolm

          che  imponga  una  pur  precaria,  incerta  forma,  alla  Scozia  insanguinata  e
          sconvolta da Macbeth. Solo in apparenza, qui, Alcibiade − che, in un intreccio
          parallelo  assai  meno  gratuito  di  come  non  sia  stato  a  volte  giudicato,

          combatte  contro  la  stessa  Atene  rifiutata  da  Timone  −  è  un  personaggio
          siffatto; al contrario, Alcibiade è tutt’uno con Atene, e la sua “guerra”, perciò,
          non  è  che  un  consolidamento  delle  sue  strutture.  In  effetti,  la  grande
          intuizione di Shakespeare nel Timone d’Atene (e che basterebbe da sola a far
          giustizia dei dubbi, dovuti a qualche marginale incongruenza e incompletezza,

          sollevati  in  passato  sulla  totale  autenticità  dell’opera)  consiste  proprio
          nell’aver messo in scena l’impossibilità del conflitto, la non-azione. Nell’aver
          espresso lo sgomento di fronte ad un’Inghilterra dominata dall’economia del

          profitto attraverso la metafora di una Atene che ha perso i caratteri del mito
          per assumere quelli di un immobile, moderno inferno. Un inferno in cui non è
          possibile  il  conflitto,  e  non  è  possibile  la  tragedia.  Il  luogo  è  quello  che  la
          tradizione ci ha consegnato come lo spazio tragico per eccellenza: ma questo
          spazio  è  colmato  dall’oro,  svuotato  degli  eroi.  In  esso  nessuna  azione  può

          accadere  che  non  sia  illusoria,  nessuna  mimesi  che  non  sia  quella
          dell’assenza.
          E  tale,  infatti,  è  l’“azione”  di  Timone.  Davvero  riduttivo  sarebbe,  come
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