Page 2951 - Shakespeare - Vol. 3
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comincia a vedere, specie attraverso le parole dell’intendente Flavio (il solo
personaggio positivo del dramma), tenta ancora di salvare la sua utopia,
inviando a sua volta i propri servi a chiedere altro denaro ai creditori («Io
sono ricco nei miei amici»), il tentativo non può che fallire. Intorno a Timone
ormai vittima sacrificale si stringe una rete sempre più fitta − come quella
che si stringeva intorno ad Otello, o a Cristo (e non mancano infatti, qui come
altrove, numerose allusioni al tradimento di Giuda e alla Passione). La sua
“corte” rinascimentale è un palcoscenico coperto di cambiali e di fatture, e a
coloro che circondavano il Signore, il mecenate, il gentiluomo perfetto, si
sostituisce uno stuolo di servi che (pur nella consapevolezza dell’ingiustizia
propria dei servi e degli umili shakespeariani) calano come sparvieri sulla
preda. Questo è il mondo reale: non una corte, non un’Arcadia o un Giardino
dell’Eden ma una casa con un “cuore di ferro”, una prigione. Timone vede,
ora, come aveva visto Re Lear: «Deve la mia casa / Essere la mia galera, il
nemico / Che mi imprigiona?», e passa all’azione. Ma Timone non è Coriolano
e la sua non può che essere una non-azione: il solo gesto che egli sa
compiere è quello, grottesco, con cui la prima parte del dramma si conclude:
la patetica beffa che egli pratica nei confronti degli amici, l’acqua calda che
riempie i piatti di un banchetto inesistente, cappelli, mantelli, pietre, preziose
e non, che volano sul palcoscenico.
Ma se la prima delle illusioni è caduta non s’inceppa, in Timone, la molla che
le produce, e all’utopia rinascimentale fa luogo, nella seconda parte, quella
che si potrebbe definire l’utopia di Satana. Abbandonata Atene (e il discorso
d’addio già costruisce il nuovo personaggio, ché quella di Timone è anche
l’utopia dell’attore, come per Macbeth, o Antonio, o Cleopatra), esule nella
foresta, l’agnello diventato tigre (come nei versi di William Blake) persegue
un’utopia che, in puntuale mimesi della tradizione biblica, è ora quella non
della creazione del mondo ma della sua distruzione, del ritorno al caos
originario, ad un magma che gli consenta, sostituendosi a Dio, di annullare
puritanamente il creato e la storia in una nuova Apocalisse. Già nella prima
della mirabile serie di invettive che, sulla scorta dell’esperienza del Re Lear
ma ancor più del Coriolano, formano l’ossatura di questa parte, il progetto si
delinea. La parola − una parola che sempre più s’identifica, caricandosi di
altro strepito e furore, con quella fin qui usata dal solo Apemanto − mira ad
evocare il mondo, e ad evocarlo minuziosamente, in tutti i suoi aspetti, in
tutti gli strati umani e sociali che lo compongono − con una ripetitività che è
maniacale ansia di completezza, affinché nessun dettaglio sfugga all’occhio
ormai ferocemente lucido − per poterlo, contemporaneamente, distruggere.