Page 2943 - Shakespeare - Vol. 3
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con la confessione del proprio mutamento in una scena vicina, IV, iv, 22-24, per constatare quanto
                 Coriolano inganna se stesso o s’inganna su se stesso.
              35 IV,  ii  Scena  la  cui  funzione  principale  mi  pare  quella  di  creare  un  intervallo  di  tempo  e  spazio
                 linguistico tra il primo e il secondo Coriolano, dando al suo cambiamento una componente causale di
                 tempo.
              36 IV, iii Scena anticipatoria, se il tradimento di Nicanor può esser visto come un motivo prolettico del
                 tradimento  oggettivo  di  Coriolano.  Ma  il  motivo  è  anche  parte  del  paradigma  e leit-motiv della
                 corruzione e del tradimento come malattie dell’organismo che è lo stato romano. La scena serve
                 anche, come la precedente, a distanziare e motivare nel tempo il mutamento dell’eroe.

              37 IV, iv Inaugura il blocco delle scene in campo volsco, e mostra il passaggio − già preparato come
                 s’è detto, e per il quale la natura dell’eroe e del dramma esclude un’approfondita estrinsecazione di
                 motivi psicologici − dal vecchio al nuovo Coriolano. Per questo basta al drammaturgo − e a molti
                 critici è sembrato, senza ragione, insufficiente − il breve soliloquio ai vv. 1-6 e 12-26, uno dei tre
                 soliloqui di tutta la tragedia (gli altri, ricordiamo, sono a II, iii, 111-123 e a V, iii, 20-37). Soliloqui che
                 esprimono, nello statuto del dramma, il pensiero del personaggio, che in essi  parla  a  se  stesso e
                 non  al  pubblico  com’è  stato  detto.  Già  all’inizio  la  scena  presenta  una  situazione  abnorme  e
                 contraddittoria: il distruttore cerca asilo nella città di cui ha distrutto gli abitanti. Ed  è,  si  può  dire,
                 l’emblema  stesso  della  tragedia  di  Coriolano.  Nel  soliloquio  sul  gran  motivo  elisabettiano  della
                 «mutability» ai vv. 12-26, gli occhi dell’eroe si aprono al principio di contraddizione che pervade la
                 visione  tragica.  Nel  continuo  conflitto  e  rovesciamento  che  è  la  vita  Coriolano  si  riconosce  ora
                 cambiato e si accetta, pur senza rinnegare − illogicamente − il suo proposito di costanza e identità
                 con se stesso. Che egli ancora non sappia con chiarezza ciò che sta facendo è rivelato dall’ironia
                 della parola finale del soliloquio, «service», che tornerà ad echeggiare nelle scene successive, a far
                 risaltare come l’uomo che non accettava servitù se non quella alla Patria si sia ora messo al servizio
                 d’altri, anzi del nemico. E di fatto il modo inaudito con cui d’ora in  poi  Coriolano  dovrà  giustificare
                 dinanzi  ai  Volsci  ogni  suo  atto  ne  farà  decisamente  un  personaggio  che  desta  pietà  e
                 commiserazione.

              38 IV, v L’incontro «eccezionale» tra Coriolano ed Aufidio è messo in risalto e insieme ironizzato dalla
                 coralità quotidiana e meschina dei servi, che lo avvolge, lo prepara e commenta, quasi fosse uno
                 spettacolo, un «play-within-the-play». E in realtà si tratta di uno spettacolo tragico, sincero e insieme
                 assolutamente privo di verità. Le tirate dei due dialoganti hanno due livelli di significato: uno letterale
                 appassionatamente sincero, e pregno di un’ardente volontà di comunicazione e adesione (per cui,
                 diranno i servi, i due parlano come due amanti); e uno inconscio e ironico, il cui senso può emergere
                 solo nello spettatore cui la visione globale dell’opera conferisce «il senno di poi». Su questo − che è il
                 livello  dell’occhio  cosmico  del  drammaturgo  e  insieme  della  Moira,  del  destino  −  il  discorso  di
                 Coriolano  esprime  non  solo  l’attrazione  per  il  nobile  nemico  ma  la  sua  sconsiderata libido  serviendi
                 (continuano a risonare le parole «serve»  e  «service»),  e  d’altra  parte  le  promesse  che  egli  fa  si
                 riveleranno  tutte  «promesse  di  marinaio».  Il  discorso  di  Aufidio  esprime,  in  contrasto  col  senso
                 letterale, un minaccioso fondo di violenza, come fosse espressione d’un impulso amorevole in una
                 persona  aggressiva  e  violenta,  e  basta  accostare,  per  capirlo,  queste  sviscerate  dichiarazioni
                 d’amore alle parole e agli atti dello stesso personaggio alla fine della tragedia, quando egli scannerà
                 l’oggetto di tanta affezione e ne calpesterà il cadavere. Davvero, in questa terribile scena di verità
                 assente, o di verità diversa da quella apparente, i due non comunicano, sono all’oscuro di se stessi
                 e  dell’altro,  né  capiscono  l’impossibilità  di  attuare  ciò  che  dicono  di  voler  attuare.  Solo  i  servi,  nel
                 chiudere  la  scena  in  funzione  di  demistificante  anticlimax,  intuiscono  la  strana  contraddizione  di
                 quell’incontro.
              39 IV, v. 40 Il «baldacchino» è insieme il cielo e il segno della regalità che Coriolano si attribuisce.

              40 IV, v, 44 «La città dei nibbi e dei corvi» può essere un modo sinistro di indicare lo spaesamento
                 dell’esilio, o un rimando ai campi di battaglia come luogo di Coriolano per antonomasia. Questo, fa
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