Page 2950 - Shakespeare - Vol. 3
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sensualità  suggestivamente  descritta  da  G.  Wilson  Knight,  ma  sembra
          concretamente  rappresentare  la  realizzazione  dell’utopia  di  Timone.  Ma  si
          tratta di un’illusione non diversa da quella evocata dal masque. Il pubblico ne
          era stato già avvertito, con molti segnali che facevano scattare il congegno

          dell’ironia  tragica:  dal  primo  discorso  del  Poeta  (deriso  come  esponente  di
          un’arte  mediocre  e  mercenaria  ma  al  quale  sono  affidate,  all’interno  del
          dramma,  funzioni  rilevanti)  agli  oggetti  scenici  che  suggeriscono  il  dominio
          dell’oro e della materia, ai gruppi di immagini ricorrenti (di cibo, anzitutto, di

          malattia, infezione, morte, animali) che rivelano, secondo un metodo che è di
          tutti gli elisabettiani ma che Shakespeare porta qui a un grado estremo di
          sottigliezza e di complessità (e si leggano le pagine di W. Empson sul “cane”
          del Timone), quale sia la realtà che si cela dietro l’apparenza. E ne era stato

          avvertito specialmente attraverso il personaggio del filosofo cinico Apemanto,
          che,  come  il fool del Re  Lear,  fin  dalla  sua  comparsa  strappa  ogni  velo,
          denuncia  la  cecità  di  Timone,  lo  mette  in  guardia  dall’adulazione  e
          dall’inganno. Timone ha sempre ignorato gli avvertimenti di Apemanto: al suo

          linguaggio duro e dissacratore, quello già usato da Jaques in Come vi Piace, e
          poi  da  Amleto,  il  linguaggio  dell’“essere”,  della  verità,  ha  contrapposto  il
          linguaggio  del  “sembrare”,  dell’apparenza,  delle  vanità.  Ma  tale  scelta  non
          basta a esorcizzare la realtà: nel mondo nuovo, come dolorosamente scoprirà

          Gonzalo  nella Tempesta, le utopie si disgregano, e dopo il banchetto Atene
          mostra il suo vero volto: non l’amicizia vi regna ma l’inganno, non lo scambio
          ma l’usura, non i valori ideali ma l’interesse materiale («L’interesse sta al di
          sopra  della  coscienza»,  dice  uno  Straniero),  l’oro  ormai  precisamente

          quantificato  in  moneta.  Quel  che  Timone  vedeva  era  un  “mero  sogno
          d’amicizia”, una scena teatrale, ma ora gli “attori” si svestono dei costumi e
          delle maschere, la scena rivela la sua cartapesta. Ciò che esiste è solo un
          meccanismo  spietato  di  cui  Timone  era  già  inconsapevole  ruota  −  la  sua

          utopia  era  pur  sempre  basata  sul  denaro,  e  la  sua  ricerca  dell’ideale,  del
          “sacro”  simboleggiato  dal  “dono”,  ne  era  già  inquinata,  così  come  un
          elemento narcisistico inquinava la sua generosità − e che ora stritola chi ha
          trasgredito  alle  sue  leggi.  E  la  trasgressione  non  è  l’idealistica  utopia  di

          Timone ma, significativamente, il fatto che egli l’abbia innalzata su un denaro
          che non aveva. Per donare egli ha, paradossalmente, preso a prestito dagli
          stessi  amici  che  ha  coperto  di  doni;  anche  la  sua  ricchezza  era  illusoria
          (l’attualità dell’opera, scrive Peter Brook, che è stato tra i pochi a metterla in

          scena, sta anche nel suo «trattare di denaro e di inflazione») e gli amici, in
          realtà usurai, inviano ora i loro servi a riscuotere il denaro. E se Timone, che
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