Page 2952 - Shakespeare - Vol. 3
P. 2952

La società che Timone vedeva come emblema di perfezione ora egli la vede,
          e  la  dice,  e  così  la  crea  e  distrugge,  come  immagine  di  malattia  e
          disfacimento. «Quale vivente / Che non sia corrotto e non corrompe?», aveva
          detto,  inascoltato,  Apemanto.  Non  solo  questo  dice  ora  Timone  ma

          plasticamente  rappresenta,  con  passione  michelangiolesca,  la  città  come
          inferno e i suoi abitanti come dannati oscenamente deformi, mostruosamente
          stravolti.  Donne  e  vecchi,  uomini  e  bambini:  per  nessuno  c’è  scampo  in
          questa Atene che è come la Vienna di Misura per Misura, in questo orrendo

          affresco che rinnova quello dipinto da Tersite nel Troilo e Cressida. Non per
          gli  animali,  la  cui  comunità  è  troppo  simile  a  quella  degli  uomini  per  non
          obbedire alla legge della crudeltà e della violenza: «Se tu fossi leone, la volpe
          ti  ingannerebbe;  se  fossi  volpe,  il  leone  sospetterebbe  di  te...  se  fossi

          unicorno, l’orgoglio e l’ira ti rovinerebbero e ti renderebbero preda della sua
          stessa  furia;  se  fossi  orso,  saresti  sbranato  dal  cavallo;  se  fossi  cavallo,
          saresti azzannato dal leopardo...». Non per gli alberi, «creature che subiscono
          nude i colpi del cielo vendicativo, e i cui nudi / Tronchi senza tetto, esposti

          agli elementi / In conflitto, affrontano la cruda natura ...». Anche la natura,
          infatti,  è  corrotta,  ha  perduto  l’innocenza  del  Giardino,  e  il  segno  scenico,
          prodigiosamente  efficace,  di  questa  Caduta  è  l’oro  che  Timone  trova  nella
          terra  e  che  lega  la  natura  alla  città.  «Tanto  di  questo  renderà  bianco  /  Il

          nero; bello il brutto; giusto / L’ingiusto; nobile il vile; giovane / Il vecchio;
          coraggioso  il  codardo»,  egli  esclama  −  in  un  brano  che  Marx  considererà
          definizione  esemplare  della  natura  del  denaro,  «potenza  alienata
          dell’umanità». E quest’oro immette nel suo progetto: se prima aveva donato

          per  costruire,  ora  dona  per  distruggere,  coprendo  d’oro  quanti,  in  un
          movimento  speculare,  giungono  da  Atene  nella  foresta:  Alcibiade,  affinché
          arruoli  soldati  per  sconfiggere  Atene;  le  prostitute  di  lui  (le  sole  donne  di
          questa  opera  senza  amore),  affinché  spargano  sifilide  tra  i  maschi;

          l’intendente  Flavio,  purché  non  veda  più  gli  uomini;  i  banditi,  purché
          proseguano nelle loro gesta di ladrocinio − e si veda, qui, come la distruzione
          verbale  investa  il  cosmo,  regolato,  in  uno  stravolgimento  della  gerarchia
          dantesca, dalla stessa logica che l’oro ha imposto agli uomini: «Il sole è un

          ladro  /  E  con  la  sua  potente  attrazione  deruba  /  Il  vasto  mare;  ladra
          matricolata / È la luna, e il suo pallido fuoco lo ruba / Al sole; ladro il mare
          ...».  Non  Apemanto,  però:  e  ciò  sia  perché  questi  rifiuta  l’oro,  come  prima
          rifiutava i doni di Timone, sia perché adesso, malgrado gli scambi feroci di

          insulti, Timone riconosce che Apemanto s’identifica non solo con la verità ma
          con lui stesso (e le radici sono il simbolo che li unisce). Per lui, quindi, suo
   2947   2948   2949   2950   2951   2952   2953   2954   2955   2956   2957